Nel 1965 Robert Paul Wolff, Barrington Moore Jr., e Herbert Marcuse, proposero un’analisi della società democratica occidentale molto originale (A Critique of pure tolerance, Boston, Beacon Press). Essa veniva letta come una particolare forma di totalitarismo che si stava permeando di una cruda volontà di repressione. Già nel 1952, Jacob Leib Talmon (The Origins of Totalitarian Democracy, Londra, Secker & Warburg) aveva mostrato con quale facilità una costellazione di ideali, per definizione democratici, potesse trasformarsi in un rigido sistema di coercizione.
Entrambi gli approcci si originavano da un quesito: può una società democratica nascondere, sotto la sua maschera, un così atroce inganno? Può una democrazia trasformarsi in democratismo tanto da caratterizzare un “regime democratico” degli stessi eccessi insiti in una realtà totalitaria?
La risposta non è certo facile. Ma qualche riflessione merita di essere fatta partendo da un dato inconfutabile: oggi la globalizzazione e il connesso neoliberismo hanno liquidato l’intera cultura di tradizione umanistica.
É stata interrotta la traditio, termine che identifica da sempre la trasmissione, il passaggio del testimone da una generazione all’altra: non c’è più Olimpia, Atene è stata sostituita da Francoforte e il deserto culturale, la socializzazione della cultura, sono funzionali alle necessità di una tecnica economica distante ormai anni luce dai postulati classici dell’economia politica. E così, la società attuale – piuttosto che l’ambito espressivo del libero gioco di interessi e di tensioni –, ci appare come una sorta di firmamento, riflesso di un ordine predisposto, le cui singole stelle e costellazioni rispondono alla forza di una legge ineluttabile, nella quale l’individuo non ha voce.
Gli “strani giorni” che stiamo vivendo sono l’eredità dei decenni di predominio della concezione politica hegeliana e marxista: entrambe, non a caso, avevano in dispregio la realtà concreta dell’individuo tanto da rendere le forme storiche in cui ieri si svelavano, vere e proprie varianti de facto di un’unica sostanza totalitaria, indipendentemente dal tipo di ordinamento che oggi esprimono sia esso “totalitario” o “democratico”. Era questo, in estrema sintesi, l’assunto centrale di Eric Voegelin che nei suoi scritti spiegò che in questa società massificata quel che manca è proprio la consapevolezza dell’individuo il quale pensa di poter aver un ruolo attivo nei processi decisionali ma che, invece, lo è solo in un susseguirsi scenografico di metodi di rappresentazione, previsioni legislative, regolamentazioni amministrative, assistenza e tutela statale.
Non a caso, più sono perfetti i meccanismi per il movimento dell’intero quadro istituzionale – oggi resi tali da realtà sovranazionali come l’UE o l’OMS – tanto minore risulta la possibilità di una partecipazione effettiva, dal basso, non manipolata, dismessa – con boria da buona parte di sociologi, politologi, economisti e quanti altri allineati e inglobati nella matrix democratista – come proposta anacronistica, se non risibile.
La destoricizzazione della cultura e la fine dello Stato nazionale hanno velocizzato e incoraggiato tutto ciò. Ed il risultato è piuttosto paradossale: il “concetto” ha sostituito le cose e i rapporti concreti, la “persona” l’individuo, la “personalità” le sue caratteristiche, lo “Stato” l’equilibrio precario delle forze collettive, la “Chiesa” e la “religione” hanno surrogato ogni interiorità che non si disponga sul piano di una morale convenzionale. Tutto, dunque, risponde alle esigenze di un ordine prestabilito, che è la sola garanzia di vita societaria.
Quale la premessa, la radice di tale paradosso? La risposta è rinvenibile nelle pagine ancora attuali di Theodor Adorno e Max Horkheimer (Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966) sul potere contemporaneo che si è imposto dal 1945 ricorrendo attraverso i Mass Media a un’azione “preventiva” di condizionamento che, abituando l’individuo ad una ricezione passiva e meccanica dei messaggi, gli introgetta un’immagine predeterminata, univoca ed asettica della realtà che “lo persuade” ad adottare un tipo di linguaggio e di comportamento impersonale e stereotipato, con l’effetto finale di inibirgli sia le funzioni immaginative che quelle critico-riflessive.
Una persuasione, quindi, non meno violenta della forza coattiva ma molto più sottile, paralizzante, insidiosa e inattaccabile che fa della democrazia un democratismo il quale trae la sua linfa vitale nel determinismo che rigetta, per sua natura, qualsiasi intellettualità o filosofia.
Destrutturata la cultura, insomma, l’individuo stesso viene usato indiscriminatamente a fini demagogici e di potere, senza mai contare, più di tanto, nella pratica di una decisione politica trasformando gli epigoni dei censori del Secondo dopoguerra in “gerarchi” del pensiero unico, mezze-figure, capipopolo senza scrupolo dediti esclusivamente alla soddisfazione di ambizioni insaziabili e al proprio tornaconto personale. Figure deprecabili, certo, ma che purtroppo confermano, non a caso, l’assunto di Voegelin (Die Neue Wissenschaft der Politik, Monaco, Anton Pustet, 1959), secondo il quale ogni società riflette nel suo ordine il tipo di uomo del quale si compone.
In effetti, di questi tempi, a ben guardarci intorno, di gente così – sciaguratamente – se ne vede parecchia in giro.