Prima l’inedia forzosa di una pandemia (?) da “Grande Fratello” – e il mondo che sembra delinearsi è orrido più e peggio di quello cupo descritto da G.Orwell, che nasceva sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e sulla sistematizzazione di Stalin (l’autore l’aveva sperimentata indirettamente nella guerra civile di Spagna e della strage operata sui presunti o reali “compagni che sbagliano”, i trotskisti). Un riquadro di cielo dalla finestra della mia stanza, i tetti e solitario un tricolore quale invito a non desistere da ideali e sogni di giovinezza e libertà. In effetti armato di mascherina mai rinnovata o quasi e del bastone ortopedico da sostegno, mi sono addentrato più volte nel deserto di vie intorno al palazzo ove sopravvivo. Poi il caldo di questi giorni che mi serra la gola e m’intorpidisce le gambe. Per le strade che si sono andate popolando dove non so se si tratta di “allegria di naufragi” o attesa di un nuovo richiamo a sbarre e chiavistelli.
Qualcuno, speranzoso e probabile illuso, paventa un “autunno caldo” (non mi portò bene allora, anno ’69 tra accusa di bombe e imposti chiavistelli). Dopo l’ubriacatura di una estate confusa ed incerta simili agli animali quando vengono liberati e dalla gabbia riportati in natura. Crisi economica, produzione in caduta vertiginosa, fine di forme assistenziali e licenziamenti… bastoni e barricate, erotismo da utopia. Nel gregge ormai non si nascondono più lupi.
Dell’Ubaldini Editore un certo numero di volumi della serie Civiltà dell’Oriente – anni ’60 – fra cui copia della Bhagavad Gita (tradotto dal sanscrito con Il Canto del Beato). Celeberrimo testo, estrapolato – in effetti fa corpo a sé – dal poema dell’India vedica il Mahabharata (La grande storia dei Bharatidi), poema sterminato comprendente le oltre 100.000 strofe. In settecento versi si svolge il dialogo tra il dio Krishna, resosi sotto forma di auriga e precettore, e il principe guerriero Arjuna che, sul suo carro di guerra, collocatosi a mezzo nella piana di Kuruksetra, si accinge a partecipare allo scontro tra i Kaurava e i Pandava, membri dell’originaria e medesima dinastia, quindi imparentati fra di loro.
E Arjuna non conosce timore e tremore nell’approssimarsi della battaglia – egli sa di appartenere alla casta degli Ksathrjias e che per un guerriero il battersi è l’essenza stessa del suo essere. Eppure nel suo cuore nasce l’inquietudine e l’incertezza, come in ogni combattente, motivato o meno, cioè quale il senso se il fine è sì la vittoria ma spargendo il sangue di propri fratelli. (Semplifico il contenuto del Canto che è un contenitore prezioso di temi e filosofici e religiosi. Distinzione questa prodotta dal nostro essere “occidentali”, cioè conseguenza di quella scissione del pensiero tra ciò che si manifesta sacro e il profano. Fino ai confini del nichilismo e del trasmutare di ogni valore. Nietzsche docet).
A questa inquietudine e insicurezza risponde Krishna e ciò, che mi conta qui rilevare, con la dottrina dell’”agire senza agire” – essere, ad esempio, il fine il mezzo liberato da ogni vincolo (il Trionfo e la Sconfitta trattati entrambi come due impostori nella celebre lettera – If – al figlio da R.Kipling). Sarà questa la bella battaglia, tanto inutile quanto ignota, la sola a cui affidarci? Ho letto di recente qualcosa di analogo in riferimento a Ernst Juenger e Yukio Mishima. Ne riparleremo. E ricordo come (2004) in Inquieto Novecento, con l’amico Rodolfo Sideri, abbinammo proprio i due autori nel nostro primo capitolo, La figura del guerriero nell’età del nichilismo. Vanto di modesta fattura, forse, ma è una delle rarissime virtù che ho preservato.