Arte e Mito insiemi corposi di scienze umanistiche disseminati in civiltà diverse ove la narrazione (mithos) genera l’estetica, dando espressioni magiche al racconto, allegorie di una conoscenza altra contenuta nella parola dei poeti, nell’officium liturgico di sacerdoti veggenti (Laocoonte), nell’iconografia di artisti aedi del patrimonio ancestrale di comunità guidate alla soglia del ponte sacro, l’unico che unisca l’immanente al noumeno, il destino della polvere all’ineffabile del divino.
Attuale-inattuale, solstizio delle scienze esatte, della tecnica deità idolatrate dall’uomo vitruviano di contro all’impalpabilità di cosmogonie passate, flebili voci nell’abisso del tempo, cinguettii lontani quando Cronos governava le stagioni, il ciclo perenne della physis, eros e thanatos erano l’equilibrio nella tragedia attica, l’armonia del coro accompagnava l’ebrezza degli attori, miracolo metafisico compiuto dall’arte, in primis dalla musica evocatrice di trascendenze. Essa penetra l’animo di chi l’ascolta, eros sullo spirito che ebro danza, estasi delle menadi quanto dei verdisci rotanti come argomentava Nietzsche nella Nascita della tragedia, quel miracolo trovò il suo agnostico in Socrate, nasceva l’occidente della Ragione, della filosofia.
Anche il filologo di Rӧcken cadde nella rete dell’illuminismo, figlio della Riforma, ma nella maturità tornò sul suo sentiero giovanile ricollocando l’arte al centro dell’altare, icona privilegiata della conoscenza, dove il ruolo dell’artista, libero dai lacci della norma, la gabbia odierna del nihilismo, strappa le catene della decadenza generando l’Ubermenschl, l’oltre uomo.
Oggi parliamo di transumanesimo, è attuale il viaggio verso l’ibrido, rispolverando il mito platonico dell’androgino tanto caro, un tempo, all’esoterismo rosacrociano, alla teoria gender della religione organica, che ha i suoi papà in Marx ed Engels, un mito dunque colto dal passato remoto e tradotto al presente, in arte l’efebo Antinoo, ma attenti è solo una breve tappa prima che il redivivo Zarathustra gridi al mondo: l’uomo è morto!
Comunque il rischio del tema è il sofisma culturale, la trattazione bella densa di citazioni, l’applauso degli spettatori mentre l’acrobata percorre il trefolo d’acciaio, in alto le mute stelle, sotto l’abisso, occorre sì coraggio ma anche un’asta per mantenere l’equilibrio fino alla pedana. Quell’asta era l’arte, l’acrobata l’artista-sacerdote, il filo teso il percorso del mito che volenti o nolenti tutti dobbiamo affrontare, la prova, arrivare al porto o naufragare è questione di virtù eroiche, severa disciplina e rito per ghermire la vittoria, la Resurrezione di Piro della Francesca a S. Sepolcro o l’inferno del Buonarroti, l’essenza dei miti è questa, cogliere il pomo dall’albero della vita, essere o morire.
Il mito è viaggio verso le sacre sponde cui le arti hanno donato simboli non astratti ma rigorosi di significazioni là dove estetica ed ermeneutica si fondono diventando patrimonio sapienziale di una comunità, ben altro dall’elitarismo dei presuntuosi iniziati, la corsa dei ceri a Gubbio è un contraltare che cogliamo tra i tanti.
Cosa intendiamo è chiaro, il mito e la sua manifestazione colgono l’eterno dell’essere, l’alfa e l’omega, la tragedia della vita tradotta verso la speranza dal nodo che l’ancora al porto di Itaca sapendo di dover lasciare la barca del proprio corpo, mentre qui il mondo attuale somiglia alla Zattera della Medusa di Géricault, naufraghi nell’angoscia, in balia dei flutti, cannibali per sopravvivere, ma un brigantino salvò i 15 superstiti, nel tecno-caos fibrillante è quel naviglio Argus che invochiamo, è il mito della salvezza.
L’arte parrebbe morta e sepolta, non racconta, vuole solo stupire, provocare, la banana di Cattelan è rivisitazione dell’orinatoio Mutt di M. Duchamp, la street art è arredamento di pareti spoglie senza radici nel quartiere, le pietre delle chiese non trasudano la sacralità purificatrice del luogo, musica, pittura, scultura partecipano del mordi e fuggi dell’io autarchico e superbo di artisti immemori che il mito non è tale se non è carne e spirito della comunità come giustamente affermava H. G. Gadamer. Se non è estetica di un racconto universale è il nulla solipsista dell’ego piegato alle leggi di mercato.
L’ultimo aedo coi pennelli è stato Mario Sironi, Michelangelo del Novecento, i suoi affreschi cantano il mito dell’Italia nel suo cammino dal passato al presente dall’inattuale all’attuale, così scriveva, tra l’altro, nel ’33 nel Manifesto della pittura murale: “A ogni singolo artista poi, s’impone un problema di ordine morale.
L’artista deve rinunciare a quell’egocentrismo che, ormai, non potrebbe che isterilire il suo spirito, e diventare un artista “militante”, cioè a dire un artista che serve un’idea morale, e subordina la propria individualità all’opera collettiva.
Non si vuole propugnare con ciò un anonimato effettivo, che ripugna al temperamento italiano, ma ritornare a essere uomo tra gli uomini, come fu nelle epoche della nostra più alta civiltà.
Non si vuole propugnare tanto meno un ipotetico accordo sopra un’unica formula d’arte — il che praticamente risulterebbe impossibile — ma una precisa ed espressa volontà dell’artista di liberare l’arte sua dagli elementi soggettivi e arbitrari, e da quella speciosa originalità che è voluta e rinutrita dalla sola vanità.
Fu artista principe di una mitologia rivoluzionaria collettiva, poi appassitasi, ma questo è un altro tema, quella sua “Italia tra le arti e le Scienze” ci appare un mito assai lontano guardando al presente però ci affascina nella sua veste candida e “tira”.