Il 24 luglio, a quasi 100 anni dalla sua sconsacrazione, Ayasofya, Hagìa Sofìa, Sancta Sophia, è tornata luogo di culto religioso, moschea precisamente, echeggiava la preghiera coranica del venerdì tra le sue navate, un rituale di riconsacrazione simile a quello celebrato il 29 maggio del 1453 alla presenza del sultano Maometto II dopo la conquista ottomana di Costantinopoli che decretò la fine dell’impero romano d’Oriente. Oggi un Erdoğan aspirante sultano realizza così il suo sogno di musulmano sunnita: recitare la Shahādah come allora (“Non ci sono altri dei se non il Dio, e Maometto è il suo servo e il suo messaggero”), sotto la gigantesca cupola di quella che fu per novecento anni una basilica cristiana.
Il fatto ha suscitato molto dolore in Papa Bergoglio, condito da opinioni e commenti politicamente corretti del tipo “sia luogo di pace e di dialogo”, la solita melassa francescana pacifista dimentica della missione del Santo in Egitto per convertire al cristianesimo il sultano al-Kamil, era il 1219. Il figlio scapestrato di Pietro di Bernardone dimostrò coraggio da vendere nell’annunciare con fermezza il Vangelo ai musulmani, un coraggio da tempo sepolto sotto l’attuale ieratica codardia che chiamano ecumenismo.
Comunque chiunque mastichi un po’ di architettura, soprattutto antica, sa che la destinazione d’uso dello spazio ne determina forma, dimensioni, struttura, ornato, arredi e Santa Sofia è nata basilica non certo museo, edificio religioso non civile, la vera blasfemia fu assegnarle, nel ’35, una funzione laica, neutra, neo illuminista. Perciò che torni moschea non suscita scandalo, semmai preoccupa la vernice teocratica che il Presidente turco vuol dare al suo regime, usare la fede da collante interno, far crescere la propria leadership nel mondo musulmano, riempire il vuoto di valori presente in Occidente.
Certo stando alla documentazione storica della travagliata destinazione d’uso di Santa Sofia, complesso che ammiriamo nel quartiere Sultanahmet di Istanbul, si parte dalla sua costruzione fatta realizzare dall’imperatore bizantino Giustiniano I, effigiato con sua moglie Teodora (ex ballerina) a S. Vitale in Ravenna, lui vagheggiava di riunificare l’impero romano riconquistando l’occidente, e l’edificio, consacrato il 27 dicembre del 537 d.C., costituiva il simbolo fisico della fede cattolica (rito bizantino), era la chiesa più maestosa della cristianità progettata dagli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto il Vecchio, con impianto basilicale frutto di un’alchimia geometrica tra rettangolo, quadrato e cerchio con quella cupola che si gonfia verso il cielo. Architettura del vuoto, aerea, in abito d’oro, tanto affascinante con la sua luce metafisica, quanto fragile nella struttura oggetto di continui interventi di restauro e consolidamento, l’ultimo fu dei ticinesi fratelli Fossati (uno architetto, l’altro ingegnere) datato 1849.
Esistenza tormentata quella della Santa Sapienza, partorita dalla volontà dell’imperatrice Teodora, dopo la distruzione della precedente basilica a seguito della rivolta di Nika del 532 (un precedente di scontri tra ultras sportivi), collassi strutturali legati ai terremoti, la guerra degli iconoclasti, braccio di ferro tra credi religiosi, monofisiti, cattolici bizantini, ortodossi, templari, infine musulmani con Maometto II.
Santa Sofia è certo un patrimonio della storia sul confine virtuale che separa Oriente e Occidente, fu sede del patriarcato di Costantinopoli, poi dopo lo scisma basilica ortodossa, tornò cattolica con i crociati, poi nuovamente ortodossa e infine moschea simbolo dell’impero ottomano fino a quel 1931 quando il generale Mustafa Kemal Atatürk, primo presidente della neonata Repubblica turca, decise di sconsacrare la moschea trasformandola, nel 1935 in Museo destinato al dialogo interreligioso e interculturale. Così Santa Sofia entrò “in sonno”, il kemalismo formalmente sposava gli ideali della fratellanza universale, della laicità dello Stato nel rispetto di tutte le confessioni, etnie, orientamenti politici, valori filtrati dalla massoneria di Salonicco e da quella italiana, a prescindere da un’iniziazione dello stesso Atatürk che non è validata da documenti.
Fatto sta che Santa Sofia divenne simbolo della Turchia moderna, in cammino verso il progresso, anticlericalismo (eppure il 99% della popolazione si dichiarava islamica), diritto di voto per le donne, secolarizzazione della Nazione turca nata dalle ceneri fumanti dell’ex impero ottomano, pur con tragiche contraddizioni come la “pulizia etnica” contro ortodossi e curdi.
Da questo angolo di vista nulla di nuovo col presidente Erdoğan, guerra ai curdi “terroristi”, cavallo di Troia per l’intervento militare nel pantano siriano con calcolata espansione territoriale, ma la Turchia è membro autorevole della NATO, perciò tutti zitti anche se la campagna contro la popolazione curda determinante nella sconfitta del Daesh, strategicamente favorisce proprio l’ISIS o ciò che ne resta, dando ossigeno al terrorismo islamico.
Il messaggio che ci viene da Ankara è chiaro, il Paese degli Ittiti è forte, è una potenza militare, politica e religiosa, coltiva il proprio orto di interessi nazionali senza i salamelecchi untuosi dei politicanti europei, divisi sull’accogliere o meno la Turchia nell’UE, tutto sommato a questa casta di finanzieri ed usurai Erdoğan sembra rispondere a voce alta: me ne frego!
E noi cristiani? Speriamo che l’intonaco non torni a coprire le immagini sacre non tanto per la devozione ma a ragione della loro testimonianza storica che ha reso il complesso patrimonio di un Ente inutile l’UNESCO, per tutto il resto non abbiamo sangue e fede per crociate, lasciateci contare i soldi in laica pace.