La cultura dell’immagine e il kitsch del post-modernismo
Nel costituirsi della cosiddetta “modernità”, i media hanno diffuso una cultura di massa. La globalizzazione non c’entra, il processo era iniziato decenni prima, quando nella Penisola eravamo distratti dal “boom economico” e dalla corsa al consumo. In Europa c’era ancora la “Coppa dei Campioni”, le compagnie aeree erano “di Stato”, non esistevano gli sms, fino alle 12 in Tv si guardava il monoscopio, ci si esaltava per la portata rivoluzionaria del Televideo.
Nel frattempo, i “media” diffondevano già una cultura di massa creando le condizioni per la nascita di una cultura artificiale: la cultura dell’immagine.
Essa si fonda sull’autonomia del mezzo ed è una creazione artefatta del mezzo stesso che, soddisfando i bisogni collettivi, crea una rete di appagamento apparente, di distrazione e di intrattenimento che fa da filtro ai problemi reali. Ma se essa è immagine, come si rapporta col concreto?
Facile a dirsi: sulla realtà essa crea gli avvenimenti: di fronte alla realtà diventa maschera, camuffamento, difesa, distrazione, distorsione. Svolgendo questa funzione essa, negli anni ottanta del Novecento, ha contributo a far crollare ‒ e de facto a sostituirle ‒, le ideologie.
La cultura dell’immagine, infatti, è divenuta ideologia impadronendosi del passato e del futuro: attraverso le immagini essa riesce a trasformare entrambi in una sorta di kitsch ‒ ossia «la produzione di presunti oggetti artistici, in realtà banali e di pessimo gusto» ‒ che serve al controllo del presente adattandosi alle diverse individualità che contribuisce a formare.
È per questo che nella post-modernità si è consumata la “fine dell’esperienza” di cui parlava Walter Benjamin: formazione permanente, precarietà, intermittenza lavorativa, sono alcuni dei modi con cui si trasforma in profitto un tratto propriamente antropologico, la capacità umana di destreggiarsi nell’assenza di solide abitudini, di costruirne sempre da capo di nuove. E, soprattutto, la cultura dell’immagine ha colpito l’esperienza intesa nel senso tedesco del termine “erfahrung” ossia «l’esperienza accumulata che ci permette di giudicare una situazione presente e di prevedere come andrà a finire»: una volta, d’altra parte, grazie all’esperienza, si formavano le idee che venivano trasmesse in ossequio alla traditio, intesa come «passaggio del testimone». Oggi, invece, le idee arrivano tramite social network sloganizzate in un meme, in un post, in un aforisma (quando siamo fortunati): la loro superficialità e provvisorietà le rendo un prodotto “usa e getta”, che serve a tutti e a nessuno.
Come scrisse Theodor Adorno in Teoria della semicultura (in Id., Scritti ideologici, Torino, Einaudi, 1976) la tendenza della “nostra” (pseudo)cultura è quella di sostituire l’esperienza «cioè la continuità della coscienza, in cui perdura ciò che non è più presente, in cui l’esercizio e l’associazione creano, nel singolo, la tradizione» con «l’informazione puntuale, slegata, sostituibile ed effimera, per cui si può già osservare che nel momento successivo è cancellata da altre informazioni».
È nato così un mondo, quello della globalizzazione e del villaggio globale di Marshall McLuhan, nel quale i media hanno sostituito con le loro immagini la realtà fondando l’ideologia del post-moderno fornendo l’impressione che tale cultura ‒ la loro ‒ sia la cultura. Hanno cambiato il modo di scrivere, di pensare, di rappresentare, di formare. E il pensiero indiviso è stato sostituito al pensiero riflesso.
Noi, continuiamo a preferire il nostro di pensiero. Un “pensiero forte” che la realtà la racconta e lo fa facendo leva sulle idee frutto di un’esperienza che ‒ condivisa ‒ diventa traditio. Agli altri, che rimanga il kitsch del post-moderno. Noi rimaniamo, checché se ne dica, dei buongustai.