Parrucche bionde

 

Parrucche bionde

Anni fa, per provare quali emozioni mi procurasse la vista di un monumento eretto in onore di un traditore, andai nella selva di Teotoburgo, in Germania, dove sorge quello di Arminio, e il cagnolino della persona che mi ci aveva accompagnato fece qualcosa in mia vece: alzo’ una delle due zampe posteriori e ci pisciò sopra.

Checché ne dicano i sostenitori delle ‘magnifiche sorti e progressive’, c’è un circuito stampato in fondo all’anima oscura dei popoli, come un codice a barre che si è impresso, indelebile, sulla loro storia passata e ne influenzerà il destino per sempre.

E’ solo la nostra fantasia a farci credere di poter essere più veloci del tempo incorporato nelle cose. Lo sfregio di Sedan, ad esempio, si é trasformato, nella memoria profonda dei francesi che popolano l’Alsazia, in un’abrasione impercettibile, e l’io collettivo che prende il caffé nei bar all’aperto dei Champs Elysees sente ancora, a farci caso, come una specie di scalpiccio, come un rumore lontano di zoccoli: sono quelli dei cavalli di una compagnia tedesca, preceduta dalla svastica e da un tamburo, che si trovano a mal partito sulla superficie viscida del pavé. 

Vanno e vengono, da quel di’, da quel 14 giugno del ’40, lasciando dietro di sé l’effluvio acre dello stallatico: mancano solo i netturbini del giorno dopo, ma é un dettaglio superfluo.

Il rapporto tra grandi Nazioni e grandi Stati si traduce sempre in un numero decimale. A destra della virgola si sviluppa una sequenza numerica illimitata, la dimostrazione irrefutabile del fatto che i conti non tornano – né ora né mai – neppure se prima della virgola c’é uno zero.  

Nell’arrivare al Brennero, é come se, tutte le volte, io mi stia preparando a vivere un’avventura. Facile facile. Ma è comunque quella di chi é in procinto di varcare una soglia, di passare dall’altra parte. C’è anche l’ineffabile disagio di uno che traduce in automatico il termine ‘tedeschi’ in ‘crucchi’, che ha soggiornato a Legnano, nell’orrendo rimbombo della battaglia, migliaia di morti, prima che suonasse la campanella dell’ultima ora di Storia.  

Certo, molte cose nel frattempo sono cambiate. Così si dice. L’aforisma di Andreotti -quello con cui  dichiarava di amare la Germania al punto di  volerne due, invece che una, troppo grossa, e con troppi tedeschi dentro – si é dissolto nell’angelico ottimismo dei benpensanti, secondo i quali la Germania della Merkel, addirittura più longeva di quella di Bismark, è come il mozzo di una grande ruota piena di raggi (l’Unione Europea), piuttosto che un enorme tumore che si sta mangiando tutta l’Europa, fingendo di essere essa stessa l’Europa.

È Europa quando si tratta di prendere: succede quasi sempre. È Germania – bonta’ sua – quando dà: succede assai di rado, all’insegna delle modiche quantità, tenga buon uomo!

Si sta facendo strada tra coloro che dispongono di un certo tipo d’intelligenza il  convincimento che l’UE non sia solo l’estensione geografica della Germania, ma cha alla base di questo aborto della politica e della Storia ci sia l’allucinazione di chi, come Kalergi, nel ’22, e gli estensori del manifesto di Ventotene, nel ’41, osservava le macerie fumanti provocate da due guerre mondiali e immaginava che fondendo gli Stati europei in un unico insieme, sia pure sotto forma di federazione, si potesse scongiurare, almeno nel continente, un’eventuale recidiva.

Non avevano preso in considerazione l’attitudine dei conflitti a spostarsi verso l’alto seguendo l’evoluzione geometrica dei frattali; e fecero finta di non sapere che mentre l’esistenza degli Stati Uniti d’America era tributaria dalla promettente desolazione dell’ambiente in cui si trovarono ad operare i primi coloni dell’Arizona o del Connecticut, l’Europa era già irta di campanili, di saliscendi, di contrasti e doveva la sua ineguagliabile grandezza al fatto che ci sono così grandi differenze tra un popolo e l’altro che quelle tra un molosso napoletano e un volpino (entrambi cani, fino a prova contraria) al confronto sono un’inezia. 

Il sospetto, quindi, che tale allucinazione sia stata abilmente sfruttata per sperimentare in Europa le alchimie criminali del NWO, e che gli esecutori di tale piano vi abbiano eletto domicilio come fa il paguro con le conchiglie disabitate, non è certezza, ma vi si avvicina parecchio: soprattutto se sulla carta topografica per le simulazioni tattiche ci mettiamo dei pupazzetti in giacca e cravatta al posto dei soliti soldatini di piombo con l’elmetto chiodato e se si presta attenzione agli ultrasuoni emessi dalle agenzie pubblicitarie che esaltano la Volkswagen ‘perché è tedesca’ e dai media che si inchinano alla Mercedes, alla Miele e alla squadra del Bayern ‘perché sono tedesche’.

C’è in questa specie di nazionalismo praticato per conto terzi il raccapricciante ‘non sense’ del maialino che sorride, contento e beato, da una confezione di strutto. C’è l’esatto contrario di quanto succedeva nella scena finale del film ‘Pane e cioccolata’. Lì il cameriere italiano che era stato costretto ad emigrare per trovare un lavoro si strappava la parrucca bionda dal capo nel momento in cui Rivera imbucava il 4 a 3 dell’Azteca, e inveiva contro tutti coloro che -così piccolo e nero – lo avevano umiliato per una vita.

Qui, invece, un sacco di gente si è messa in testa una parrucca bionda. Fa trendy.

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