Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti

 

Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti

“Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”, sono le ultime parole di Adriano imperatore, e così si conclude il romanzo più celebre della scrittrice belga di lingua francese, Marguerite Yourcenar, edito la prima volta nel 1951. Appunto, Memorie di Adriano, libro ch’ebbe notevole successo e, a mio parere, giustamente. E ricordo, fra i più grandi attori del nostro teatro, Giorgio Albertazzi (“un perdente di successo”, la definizione e il titolo della autobiografia ove racconta, fra l’altro, la sua adesione alla RSI quale ufficiale nella Legione Tagliamento senza nulla rinnegare del suo passato), che – sorta di “canto del cigno” – ne aveva tratto là dove l’imperatore ricordava il giovane Antinoo, a lui caro, morto affogato nel Nilo. Rappresentazione resa ancora più suggestiva dalle rovine di villa Adriana a coreografia, il cielo stellato e bracieri di viva fiamma a rischiarare la notte e la scena.                                                                              

Ad occhi aperti di fronte alla morte come lo si è stato in vita – di questi mali tempi, in particolar modo, ove ad una pandemia sanitaria (vera presunta orchestrata) si va dilatando una pandemia dello spirito – nell’intento di atomizzazione dell’uomo reso già gregge beota e belante, sospettoso isolato minacciato svilito recluso fra il grigio delle pareti e il colore grigio della vergogna e della paura. Eppure e ad occhi aperti, dalla finestra della mia stanza vedo svettare orgoglioso e solitario un tricolore… Non rinneghiamo la fierezza e la speranza, testimoni di una esistenza altra ed alta.               

”Terra benedetta” a contrapporsi a quella celebrata, ogni qualvolta il cretinismo e la viltà dominante puntano il dito temendosi minati nel fasullo castello della nullità, e tratta dal Galilei del drammaturgo tedesco Berthold Brecht che fa dire, ad uno dei suoi personaggi come lo sia – benedetta – quella terra che non ha bisogno di eroi. E tutti, beoti e belanti, a sentirsi rasserenati compiaciuti giustificati. Eppure sappiamo – e vogliamo credere – che non è così. Tempo e circostanze ci tramandano di uomini e donne che hanno trovato forma e dignità di restare in piedi fra le rovine, di gridare con forza il loro essere contro, di entrare, se necessario, nella morte – e carne e ossa e sangue- appunto ad occhi aperti.                                                                                                 

Nel 1925 il poeta Thomas Stearns Eliot pubblica un esile poema intitolato “Gli uomini vuoti”, che si conclude con i versi: “E’ questo il modo in cui finisce il mondo – non già con uno schianto ma con un piagnisteo”. Considerato tra i più grandi poeti di lingua inglese (nel 1948 gli sarà assegnato il Premio Nobel), aveva ottenuto il successo con “La terra desolata” (1921) da lui pubblicata su impegno suggerimenti correzioni del suo amico Ezra Pound e a lui dedicata “A Ezra Pound il miglior fabbro”. Una visione disperata della riduzione dell’uomo a mera inutilità, uomini vuoti appunto. Ed Ezra Pound se ne ricorderà, venti anni dopo (maggio 1945), – rinchiuso in una gabbia nei pressi di Pisa e del campo di prigionia di Coltano per i combattenti della Repubblica (circa trenta cinque mila) – prima d’essere trasferito negli Stati Uniti e trascorrere undici anni nel Saint Elisabeth’s Hospital, giudicato pazzo per non dover confrontarsi con le sue idee contro l’usurocrazia.

Se ne ricorda nei Canti Pisani – che gli varranno uno dei premi più ambiti della cultura americana – ove scrive: “E dite questo al Possum (nomignolo con cui era chiamato Eliot dagli amici) – uno schianto non una lagna – uno schianto non una lagna – per costruire la città di Dioce – che ha terrazze color delle stelle…”

Vi furono uomini e donne che, in tempo e tragiche circostanze, seppero donarsi e non arretrare. Non importa per chi e perché. Come quel solitario tricolore svettante sui tetti di Roma, conta la sfida e il non essere ammainato.

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