Del poeta Rainer Maria Rilke ritrovo le Elegie duinesi (1923) e dall’Ottava il verso, a me subito caro, ‘Così noi viviamo per dire sempre addio’ (‘So leben wir und nehmen immer Abschied’, possiedo l’edizione con il testo a fronte). Di origine boema (Praga, 4 dicembre 1875) lo si considera fra i più grandi di lingua tedesca e di quella stagione ove l’Europa – e il crollo e la disintegrazione dell’Impero asburgico rimane il simbolo più straziante – andava dissolvendosi nella ‘guerra civile’ di cui paghiamo tuttora le conseguenze. Ospite della nobile famiglia dei Thurn und Taxis a Duino, in provincia di Trieste, con un bel castello sul mare e una passeggiata, che da lui prende il nome e che ho percorso molti anni addietro, compone appunto le Elegie da cui ho tratto il verso di cui sopra. Sempre di Rilke lessi – e, in qualche scaffale si nasconde, presente e assente – altra sua opera, I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), da cui ricavai considerazioni sulla natura della poesia del tempo dei ricordi – e qualcosa mi rimane su uno sgualcito e residuato quadernetto di appunti.
Due citazioni e le trascrivo volentieri: ‘Anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino’ (nella vecchiaia, poi, li ritrovi in ogni caso anche se è il segno che il tempo a tua disposizione volge al termine). ‘Poiché i ricordi di per sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardi e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorge nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso’ (carne e ossa e sangue e il soffio dello spirito si trovano nel luogo dell’incontro. Che sia analogo alla morte, come voleva Mishima Yukio in Sole e Acciaio?).
Scrivevo, la volta scorsa, di Adriano imperatore e suoi sono i versi: ‘Animula vagula, blandula, – hospes comesque corporis – quae nunc abibis in loca – pallidula, rigida, nudula, – nec, ut soles, dabis locos’ (‘Piccola anima, errabonda, scherzosa – ospite e compagna del corpo, – dove andrai ora, – pallida, fredda, ignuda, priva dei consueti sollazzi?’). Qui l’Addio si rende definitivo e la parola ‘sempre a vincere il tempo’ si fa inganno svelato. Nel suo fluire, però, ad ogni Sì abbiamo preceduto gli innumerevoli No e rimane il dubbio, l’incertezza che ad altro Sì potevamo accedere trasformando un qualsiasi No anteposto. Solo il verso non tradisce, se appunto è eco e il centro del nostro vissuto – immagini emozioni sentimenti -, se imperioso si leva, fragile vessillo di seta, ad indicarci la barricata, il luogo (effimero?) della buona battaglia. Il tempo, qui, si eternizza – quel fluire incessante in me e fuori di me – e, per un istante, tutto si fa immobile tace come prima dello stormire del vento fra i rami le gocce di pioggia sempre più fitte la tempesta con i suoi scuri nuvoloni in arrivo. E il viandante, come ci suggerisce Nietzsche, va errando lungo i sentieri del Nulla…