L’inizio della fine: il Donmilanismo, la lotta di classe (scolastica)
Tutta la Lettera a una professoressa è impregnata di quell’utilitarismo che alla fine, non molto dopo la “predicazione” di don Milani, risulterà trionfante: imparare le lingue straniere, ma non le culture che le hanno generate e anzi neppure la grammatica, ma quel che serve per fare il lavapiatti a Grenoble e comunicare con tutti, ridendosene dei “sacri confini delle patrie”. Non possiamo impedirci di avvertire un che di sinistro in questa risata che ricorda lo stile di vita dei migranti che un giorno sarà anche nostro e in genere una globalizzazione che vede l’italiano sempre nella parte del cameriere o del lavapiatti; ma si tratta di un’impressione personale. Ma, del resto, molto personale appare la proposta di Barbiana di inserire nel programma di Italiano lo studio del contratto dei metalmeccanici, che è “la vita di mezzo milione di famiglie”.
L’odio di classe, evidentemente, impedisce che si possa studiare il contratto dei professori che interessa altrettante famiglie e indirettamente tutte le famiglie e il cui stipendio non era poi così distante da quello dei metalmeccanici. D’altronde, come scrive Milani, i professori “sono povere creature” che non sono in grado di capire ciò che è veramente importante, come la lettura del giornale; strumento che invece era già presente nella scuola del tempo e che addirittura, se vogliamo andare indietro nel tempo, era considerato parte della didattica persino nella Carta della Scuola di Bottai. Il paradosso dell’utopia realizzata di Barbiana consiste nel giudicare classista il tentativo di elevare tutti gli studenti alla conoscenza della matematica, del latino e della mitologia classica e di valutare formativo solo il mantenere gli studenti a un livello culturale corrispondente a quello sociale, per cui si deve studiare solo il francese necessario per fare il lavapiatti a Grenoble e il contratto dei metalmeccanici.
Insomma, il difetto di tutti gli egualitarismi che, in quanto tali, sono profondamente astratti: poiché è impossibile che tutti raggiungano livelli culturali adeguati è “necessario” che la scuola non lo pretenda più, anzi ne condanni il semplice tentativo e si adegui alla provenienza dei suoi alunni e si limiti a valorizzare quello che possono dare. Il sapere e la cultura non sono più considerati una forza anagogica, ma vengono tollerati solo nella misura in cui non costruiscano gerarchie fondate sul merito, ovvero sull’intelligenza che si è in grado di sviluppare in virtù della forza di volontà. Una concezione, oggi assolutamente trionfante, i cui effetti sociali, economici, morali, politici sono stati devastanti.