Ancora intorno all’enigma del tempo
Ho dato titolo – L’enigma del tempo – all’intervento precedente, prendendolo a prestito da una raccolta di quattro brevi saggi di Hans-Georg Gadamer (Marburgo, 11 febbraio 1900- Heidelberg, 13 marzo 2002), che fu giovane discepolo di Martin Heidegger all’università di Breslavia, dove raccolse il tema dell’Essere, e considerato fra i filosofi più autorevoli dell’Ermeneutica. Il mio interesse fu determinato da una intervista rilasciata ad un quotidiano italiano (non ricordo quale), ove Gadamer con un gioco di parole distingueva le opere dai percorsi (Werke e Wege), riconoscendo ormai esaurito il compito della filosofia di produrre “grandi sistemi”, compito questo dato alla scienza, ma di costruire i rapporti fra quest’ultima e il senso originario dei significati senza i quali il linguaggio si rende sterile e incompreso. Una sorta di terra di nessuno che raccorda trincee contrapposte o, in altro modo, rompe il silenzio tra comunicazioni di linguaggio incomunicabili di fatto.
(Esempio, con la tendenza alla specializzazione sempre più settoriale, il particolare si impone e l’insieme si disperde – vedasi in medicina. Non di questo è il mio intento, qui. L’elenco dei farmaci, indicazioni e purtroppo loro controindicazioni, affollano il tavolo ove scrivo queste note e, ancora e purtroppo, il mio organismo… mi basta ed è d’avanzo).
In Martin Heidegger – e in Gadamer – un forte accento echeggia e si evidenzia della filosofia di Sant’Agostino e degli gnostici (quest’ultimi collocati ai confini della storia del pensiero occidentale per il loro linguaggio troppo prigioniero di orpelli e rimandi “esoterici” che dispiacciono a certa arroganza e pretesa intellettuale – essere, scettro e tiara assise sul trono della metafisica, considerate la scienza delle scienze -, come accade per gli scettici che, per altro motivo, si pongono oltre il pensare quale valore prioritario e si fanno discepoli della nientità). E lo scrivo con certa libertà filologica, avendo quali amici Stirner e Nietzsche e avendo abbandonato da anni la cattedra (vi sono mai salito del tutto?). Così cito – a proposito o meno – il Sant’Agostino quando, postosi la domanda su cos’è il tempo, si rispondeva: “Se nessuno me lo chiede, lo so. Se però dovessi spiegarlo a qualcuno che me lo chiede, non lo so più”. Non porto da anni l’orologio, raro il riferimento ad un arcaico cellulare, le meridiane su muri ormai ricoperti di muffa e crepe, il rintocco delle campane o il segnare ogni quarto d’ora su campanili e edifici pubblici mi ricordano l’avvento della Riforma la crisi dell’Europa la mistica del capitalismo con il denaro e il successo a misura il lavora produci consuma il superfluo l’inutile… non fanno per me.
Rimane il ritmo del cuore; il pulsare delle vene. Lieve passo di danza della giovinezza che, in fondo, “mi ha dato tanto Amore”, come raccontava Giovanna alle mie alunne. Oggi il peso del bastone ortopedico. Sono essi cifra, carnefici e vittime al contempo, dell’enigma del tempo. Se la risposta è come il volo di gabbiano sulla scogliera, cosa resta se non, a tratti, quel taciturno domandare che si fa attesa dell’incontro. Da un verso del poeta Friedrich Hoelderlin: “Che qualcosa si conservi nell’attimo che indugia”. Gli occhi sono aperti nella notte, cercano il tripudio di stelle. La voce del vento sul volto. Un eco di terre lontane ad annunciare il mistero che s’insinua mi sussurra. Tanto simile a quel filo d’erba che piegandosi a soffio lieve e impercettibile diede al profeta Elia – illuso? – di riconoscervi la voce di Dio. Che poi, mi chiedo, sia anch’esso una delle forme più alte e nobili del Nulla?