Utilizzo e solo per la comodità d’espressione il titolo del pamphlet dello scrittore francese Julien Benda Il tradimento dei chierici (La Trahison des clercs, iniziato nel ’24 e reso pubblico nel ”27), sul ruolo degli intellettuali e di quel loro calarsi prono e facinoroso verso le spinte provenienti dalla realtà a loro contemporanea, a quel impegno nella politica che, con il suo irrazionale animare più la pancia ed il cuore del mondo che la ragione, intende distruggere i valori perenni e astratti di cui i chierici, appunto, dovrebbero essere cultori e testimoni. Tema questo che lo rese famoso e che si tradusse in un dibattito reso complesso e fattosi feroce sulla figura e l’essere stesso dell’intellettuale organico e militante. Antonio Gramsci lo lesse e ne scrisse, aprendo la sua polemica con Benedetto Croce, mentre si trovava nel carcere di Turi tra il 1929 e il ’30. Per ricordare, altro esempio, dell’attenzione critica di Benda alla Action Française di Maurras da cui emersero scrittori quali Robert Brasillach o, in ogni caso espressione (di Benda) del ‘patriottismo romantico’ (basti ricordare il bel libro di Paul Sérant dal titolo suggestivo Romanticismo fascista,1959), prossimi quali Drieu la Rochelle e L.F. Céline che nutrirono la nostra giovinezza di bastoni e di lotta e di idee e di barricate, a cui restiamo tenacemente fedeli. Anche perché, sebbene Nietzsche ci abbia ammonito come il sangue non sia buon testimone, lo preferiamo là dove ci suggerisce di scoprire, scrivendo con il sangue, lo spirito…
Come sempre mi sono dilungato nella premessa, saccente e verbosa, a tutto danno di quanto dovrebbe essere l’argomentazione centrale, che finirà per risultare natura asfittica stitica inconcludente. A perdonarmi, non sono troppo severo con me stesso, mi giustifico essere i miei interventi soltanto pallida ombra e briciole di cultura.
Andando avanti con la lettura poderosa e impegnativa di Con Mussolini e oltre (ne ho scritto la settimana scorsa), ritrovo fra i molteplici richiami a me familiari una eco di rinnovata condivisione sul tema della parola del suo dominio e, al contempo, della sua sconfitta. Non fummo, dunque, soltanto battuti nel ‘45 dalla potenza dell’oro e delle armi messe in campo. Ripenso a quanto mi confidava Ugo Franzolin, giornalista e scrittore, già corrispondente della Xmas. Con il nostro anacronistico modello ’91 e di fronte stormi di aerei sciami di navi colonne di autoveicoli carri armati e soldati di tutte le nazionalità, corse a salire sul carro del vincitore, e come non rendersi conto, magari in modo confuso all’inizio, che alle loro spalle s’avanzavano modelli di vita a negare e distruggere quanto per secoli era stata dell’Europa la sua cultura l’esistenza e l’articolato profondo fondamento dei suoi valori. La guerra del sangue contro l’oro come amava ripetere Giano Accame, mediando le riflessioni e il verso di Ezra Pound contro l’usura.
Siamo stati sconfitti nella guerra delle parole. Non soltanto dall’invadenza a tutti i livelli nella nostra lingua di espressioni anglosassoni (l’uso, ad esempio, nella politica e nell’economia e nel gergo giovanile ed oggi nella pandemia sanitaria tanto e più da rendersi parte di una pandemia dello spirito globale). In noi stessi, il virus, in coloro che s’erano fatti consapevoli e ne denunciavano l’avverarsi. Termini quali Identità e Riscossa ci appartengono per la valenza di significato, di contro a prediligere e ci si infogna nella equivocità di parole mediate dal 25 aprile e dintorni. La liberazione… a indicare uno stato interiore, un rasserenamento e distanza dell’animo, l’apatia di cui parlarono gli stoici, si trasforma in una fetecchia da guitti e saltimbanchi prestati alla politica. L’intellettuale al servizio della propria arroganza e vanità ormai, evidente il segno della sconfitta subita, certo che non vi sia più chi con energica mano si decida a togliere la sicura del revolver.