I 5Stelle alla fine della corsa
Vincerà Di Maio o trionferà Di Battista? E Casaleggio riuscirà a restare in sella? Fico, poi, da che parte si schiererà? Gli Stati Generali dei Cinque Stelle, nelle ultime settimane, hanno riempito le pagine dei giornali e sono stati sviscerati da tutte le televisioni nazionali. Risultato: difficile capire chi la spunterà, ma molto facile comprendere che, ormai, del Movimento fondato da Beppe Grillo non resta praticamente nulla. Non la trasparenza (basti pensare che il voto per stabilire i relatori per la giornata conclusiva è rimasto segreto e sconosciuto per giorni); non le regole (una su tutte: gli indagati si devono dimettere); non i princìpi ispiratori (ormai è solo un ricordo il “nessun accordo con i vecchi partiti, Movimento al governo solo con la maggioranza assoluta”). Non i voti (dal 33 per cento del 2018 siamo, ormai, sotto il 15 per cento).
Quello di oggi, in realtà, non è più un Movimento, ma un partito vero e proprio, con correnti e fazioni, pronte a sbranarsi per l’unico dio che sembrano conoscere i grillini: il potere.
A Roma, per esempio, è in atto una guerra totale, tra la Raggi e tutti coloro che le sono ostili e fanno capo a Roberta Lombardi, la candidata presidente alla Regione, che nel 2018 uscì con le ossa rotte dalla sfida con Zingaretti e Parisi. Dopo quella sconfitta, però, la Lombardi ha praticamente smesso di essere grillina, mettendosi a disposizione della Giunta Zingaretti, che in Consiglio aveva bisogno di voti, per poter andare avanti. Così, il gruppetto a 5Stelle, capitanato appunto da Roberta Lombardi, ha rappresentato la gamba in più, che ha consentito al fratello del commissario Montalbano di fare il bello e il cattivo tempo in Regione.
Dallo scranno della Pisana, peraltro, la Lombardi ha proseguito la sua antica battaglia con la sindaca Virginia e oggi dichiara ai quattro venti che una ricandidatura della disastrosa Raggi, che invece vuole correre nuovamente per il Campidoglio, sarebbe un suicidio politico. Facendo sponda, guarda caso, al Pd di Zinga, indisponibile a sostenere un tentativo bis della Raggi.
Le lotte fratricide, comunque, non finiscono qui. Di Maio, che più di ogni altro ha toccato con mano i privilegi del Palazzo, si è trasformato da nemico dell’inciucio a strenuo difensore di qualsiasi governo, purché con una poltrona a lui riservata: così, è passato da essere ministro dell’Economia e vicepremier in un esecutivo con la Lega di Salvini a ministro degli Esteri del Conte-bis, sostenuto dai rivali di una volta, Renzi e Zingaretti. La cosa ha fatto imbufalire Di Battista, che da oltre un anno spara a zero sulle nefandezze di questo governo, ma alla fine rischia di trovarsi solo e di perdere la battaglia con l’ex amico Giggino Di Maio. Tra i due litiganti potrebbe spuntarla l’attuale presidente della Camera, Roberto Fico, che, dopo essere arrivato in autobus al primo appuntamento da presidente di Montecitorio, ha capito che era molto più comodo utilizzare auto blu e appartamenti presidenziali, voltando le spalle a tutte le campagne del passato, per “tagliare” i privilegi dei potenti.
Uno scenario, insomma, che ci riporta ai tempi della prima Repubblica e della Democrazia Cristiana, con ministri arroganti e correnti in lotta tra loro, non certo al Movimento del “vaffa”, ideato e lanciato da Beppe Grillo. E lo stesso ex comico sembra essere stato contagiato dal delirio di onnipotenza che pervade il mondo a cinque stelle, tanto fa essersi lasciato andare, negli ultimi tempi, a penose sceneggiate e attacchi sconsiderati (anche fisici) ai giornalisti che fanno domande scomode.
In definitiva, sembra proprio che la parabola del Movimento Cinque Stelle sia arrivata al capolinea. Se ne dispiacciono i tanti italiani che avevano sperato nel cambiamento e nel Parlamento “aperto come una scatoletta di tonno”. Se ne compiacciono tutti coloro che, da subito, avevano ben compreso che non è certo con una banda di incompetenti e improvvisati, come Grillo, Di Maio e Di Battista, che si può cambiare il Paese.