Quella che venne al mondo nell’immediato dopoguerra é l’ultima generazione ad aver avuto al centro del proprio panorama esistenziale la figura del pater familias, ed é anche quella dei figli che moltiplicavano per due o per tre, come attraverso degli specchi messi l’uno di fronte all’altro, l’immagine del padre e del nonno, dai quali hanno ereditato la vecchia segnaletica dei valori e il libretto delle istruzioni per decifrarla.
Lo strappo, il crepitio della terra che si apre formando due blocchi contrapposti, rispettivamente per i padri e per i figli, risalgono forse al ’68, ma forse si tratta di una lettura troppo facile per essere anche corretta. Ho sempre creduto che lì, sulla scalinata piena di sassi che risale da Valle Giulia, quei ragazzi di cui non si vedono gli occhi (che sono rivelatori), ma solo la postura del corpo che annuncia la sfida, e qui, nella parte bassa dell’istantanea, il luccichio degli elmetti calzati da dei poliziotti attempati, riproponessero un rito antico, quello dei figli obbligati dal copione a ad affrancarsi dalla tutela, spesso asfissiante, dei padri, e dei padri costretti ad ammettere di non essere più indispensabili per i propri figli, ma senza vere lacerazioni, senza risentimento, come quando é giusto che sia così.
Il reciproco riconoscimento di un ruolo, quello di essere in ogni caso complementari come il tema e la desinenza di una parola, é venuto meno quando il vento del ’68 é stato sfruttato dai manipolatori del logos, i quali, nell’intento di contrastare l’autoritarismo hanno finito per diffamare l’autorità, e per debellare il paternalismo – che é la forma degenerata di tutti gli atti improntati a falsa affabilità compiuti dal superiore verso l’inferiore, entrambi supposti- hanno demonizzato il pater familias, scatenando contro di lui i marosi di una cultura divisiva: la stessa che, col trascorrere del tempo, ha messo gli uomini contro le donne, i bianchi contro i neri, la famiglia contro la scuola, gli Italiani contro se stessi.
Era inevitabile che il dualismo tra padri e figli, nell’incancrenirsi, distendesse la propria orbita e conferisse una valenza conflittuale al rapporto tra vecchi e giovani. Quel sinistro crepitio, di una fenditura che apre e divide il mondo in due emisferi distinti, si era già udito nei primi anni ’70 con l’abolizione del Latino e si é ripetuto più di recente con quella della Storia romana nella scuola media. L’espianto delle radici, ottenuto anche attraverso la somministrazione di forti dosi di ‘cultura utilitaristica’ nei programmi scolastici (le ‘tre i’ della Gelmini) e l’abolizione del merito, hanno concorso nel creare una società i cui ritmi sono quelli che le vengono imposti dall’economia della dissipazione e dello spreco, dell’usa e getta, a fronte della quale il vecchio che non consuma, tranne l’indispensabile, e riscuote, inoperoso, i soldi della pensione, si costituisce come la controfigura del diavolo che attinge dal catino dell’acqua santa.
I tempi in cui Enea progrediva curvo, sotto il peso del vecchio Anchise, verso la creazione di Roma, sono ovviamente lontani come tutta la letteratura che esalta la potenza del vecchio che é già passato per quella strada e sa dove la curva diventa pericolosa. La consapevolezza di non avere più molto tempo a disposizione lo dissuade dal tentativo di avventurarsi in grandi rincorse e gli suggerisce un comportamento selettivo: esattamente l’opposto delle scelte fatte da giovane, quando l’impeto gli impediva di cogliere le vibrazioni subliminali di ogni cosa, di centellinare il whisky 12 years della vita, di trasformare, facendo sesso, il tamburo in uno strumento dalle sonorità delicate e profonde come quelle dell’arpa.
È del vecchio, emancipatosi dall’immediatezza degli affanni, la tendenza a ritornare sul ‘posto delle fragole’ (Bergman), a fare contromano il giro delle sette chiese per cercare di capire dove aveva compiuto le scelte sbagliate imprimendo, senza accorgersene, alla propria esistenza quella direzione piuttosto che quell’altra, implacabile nel darsi dei voti, quasi mai una sufficienza stiracchiata, quasi sempre un tre o un quattro.
Ciò che maggiormente dispiace di questo vecchio che galleggia a mezz’aria tra la sordida realtà degli ospizi e la leggenda che lo vuole assiso su di uno scranno d’oro, avvolto in una lunga tunica color porpora (nel peggiore dei casi, a torso nudo, in qualche foresta, seduto per terra, mentre indottrina dei giovani selvaggi) é che sembra essersi dimenticato di morire, eludendo, come dice Giovanni Toti, il governatore della Liguria, l’obbligo, fatto agli esseri improduttivi, di farsi cortesemente da parte, e suscitando viva disapprovazione in gente, come la Lagarde, presidente della BCE, per la quale l’età media della popolazione europea é divenuta, col passare del tempo, eccessivamente alta, o come Giuseppe Grillo, il guru del M5S, a parere del quale i vecchi dovrebbero essere privati del diritto di voto, perché non condividono più l’assordante frastuono dell’alveare, e soppiantatati dai quindicenni che alimentano il mercato coi loro leccalecca e coi loro abiti fighi.
Ora, a parte che ci sono voluti diversi millenni per trasformare il sogno della longevità in un fatto compiuto, a fronte di un evo lontano in cui a trent’anni si era già pronti per finire sotto terra, urgono due osservazioni. La prima é che per ripristinare quest’andazzo non ci si può esimere dal riportare indietro il calendario delle conquiste sociali, facendo roteare nuovamente la frusta sulla testa dei cittadini declassati a sudditi (oh, cacchio, ma questo é il menu del NWO!). La seconda é che se cambiassimo l’ambientazione e trasferissimo certi proclami, che lampeggiano, torvi e imperiosi come display, sullo sfondo, mettiamo degli anni trenta e quaranta della Germania nazista, tutti direbbero che si stanno effettuando delle prove tecniche di eugenetica. Trattandosi di nazisti, é normale.
Non so però se convenga far presente che siamo nel 2020. O forse, no. Aspettate che guardo il giornale.