“La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo?… Noi siamo stanchi dell’uomo…”, scriveva Nietzsche nell’estate del 1887, in una delle sue opere capitali, Genealogia della morale. Queste parole sono oggi più attuali che mai, e ci risuonano fin troppo familiari: si presentano a noi – uomini del ventunesimo secolo – come un ospite atteso e conosciuto. Non è forse la stanchezza il sentimento dominante del nostro tempo? Oggi siamo attanagliati dalla stanchezza: anche il semplice pensare è divenuto tedioso per chi non vede più l’orizzonte innanzi a sé, per chi non sa più cosa sia lo slancio e la vertigine.
L’orizzonte si va riducendo, fino a scomparire: oltre lo spazio del nostro vivere quotidiano non vediamo nulla. Viviamo in un presente che si ripete uguale; il flusso di immagini che ci circonda varia ad ogni istante − simile a una fantasmagoria − ma in fondo ripete un unico, ossessivo leitmotiv: non ci sono alternative, questa è l’unica realtà, da qui non si esce. È questa la ragione per cui in Occidente non si generano più figli: non si crede nella vita, non si spera nel futuro − il futuro non esiste, è scomparso. Vi è solo un’attualità permanente, con le sue previsioni statistiche, le sue cifre, i suoi bollettini. Viviamo in un mondo spettrale, sempre più dematerializzato, saturo di segni ma vuoto di significati: si guarda per non vedere, si parla per non dire. Questa stanchezza assume naturalmente anche il tono della disperazione, perché un’umanità che non crede più a nulla non è in grado di sperare: la disperazione paralizza l’immaginazione, e ci impedisce di concepire una realtà diversa.
La disperazione per certi versi è addirittura un lusso, e non tutti possono permettersela: coloro che veramente hanno motivo di disperare, sono spesso talmente poveri che non hanno nemmeno il tempo e l’energia per lasciarsi prendere dallo sconforto, occupati come sono nella mera lotta per la sopravvivenza. La disperazione è inoltre quanto di più funzionale ai piani del nemico, ovvero alle forze della sovversione. Il nemico ci vuole disperati, perché un uomo disperato è pronto ad accettare qualsiasi prigionia: quando un uomo si convince che quello che lo circonda è irrevocabile, il potere si scatena e accresce a dismisura la sua ferocia. Il nemico vuole farci credere che la nostra vita si riduca al semplice arco dell’esistenza terrena; che la nostra patria sia lo spazio angusto che ci circonda; che l’unica realtà sia quella percepita dai nostri sensi. Il nemico ci ripete che non c’è scampo, e lo ripete di continuo, in maniera incessante. Eppure mai come ora bisognerebbe pensare fuori dal tempo, e non secondo il proprio tempo.
Mai come oggi c’è bisogno di recuperare l’anelito al trascendente, quella vertigine e quello slancio che donano senso alle nostre vite. Certo, il relativo possiede un suo grado di realtà, ma non bisogna dimenticare che esso è la manifestazione di qualcosa di incondizionato – qualcosa che è al di fuori del tempo − così come il movimento scaturisce da ciò che è immobile, e la parola da ciò che è silenzioso. Se le nostre attenzioni sono rivolte esclusivamente a ciò che è relativo e transitorio (e tutto al cospetto dell’Assoluto è relativo e transitorio), noi resteremo prigionieri del tempo, e dunque della morte. Non dovremmo mai dimenticare – come ci ricordano Platone e Rūmī – che siamo giocattoli nelle mani di Dio: a Lui apparteniamo, a Lui spetta l’ultima parola. E per quanto feroce sia il potere che ci domina, dobbiamo essere coscienti che anch’esso − sia pur inconsciamente − non è che uno strumento nelle mani di Dio, e non fa che collaborare al Suo disegno: questo potere ha avuto un inizio, e di conseguenza avrà una fine. Perciò la disperazione non deve albergare nei nostri cuori, perché il rivolgimento è sempre possibile, ad ogni istante la vita promette un nuovo inizio, e di là da ogni inverno freme e urge un’eterna primavera.
Dovremmo ripetere a noi stessi, ogni giorno, quel “Denn alles ist gut” che Hölderlin afferma in una delle sue poesie più alte, Patmos: “Poiché tutto è bene”, ci dice colui che aveva tutte le ragioni per farsi vincere dalla disperazione, eppure non smetteva di attendere e cantare l’aurora. Per chi vede le cose dal punto di vista dell’eternità, il tempo diviene illusorio: questa notte che avvolge il mondo non è infinita, non è irrevocabile. Per un credente non vi è peccato maggiore della disperazione: disperare significa credere che Dio abbia dei limiti, che l’Infinito sia finito; e invece per Dio nulla è impossibile, e non vi è nessuna oscurità che Lui non possa squarciare con i Suoi raggi. Bisogna rivolgere il nostro sguardo alle cose che restano, non a quelle che svaniscono: è qui che si vede la nobiltà di un uomo, perché noi siamo e diventiamo quello che amiamo. Solo così il fuoco − invece che bruciare − diviene qualcosa che purifica, che ci libera dalle scorie. Solo così le ferite si trasformano in fenditure, in soglie per sfuggire alla tirannia del divenire.
Il dolore ci può abbattere o ci può innalzare, può essere una degradazione o una processione regale: siamo noi a decidere, qui e ora. E diventeremo uomini liberi – non più schiavi del nostro tempo − quando potremo ripetere, con Hölderlin, “alla fine tutto è bene, ed ogni lutto è soltanto la via che conduce a una vera e santa gioia.”