Un giorno tale Moaveo (scritto e pronunciato senza la erre, con l’intento di far piacere ad un diplomatico in carriera che aveva di moscio tutte le consonanti) entrò nella compagine governativa improvvisata dai gialli e dai verdi, come Ministro degli Esteri, dopo aver servito Monti e Letta come massimo interprete delle politiche europee. Il servitore di due padroni, più noto come Arlecchino, gli fa un baffo, di quelli a manubrio che ornavano nei tempi andati il viso dei generali di brigata e dei primi bagnanti con le culotte a strisce che apparvero sulle spiagge di Riccione. Dopo di lui, il testimone della Farnesina é stato affidato a Di Maio. Ci sarebbero molte domande a cui rispondere se non ci fossimo tutti assuefatti ai cambiamenti che avvengono lentamente, col favore delle tenebre, espropriando i singoli dettagli della loro attitudine a svelare la profondità del contesto. In linea teorica, infatti, l’avvicendamento tra Moaevo e Di Maio, tra il figlio di mamma e papà addobbato di lustrini come un albero di Natale, e il figlio migliore di Pomigliano d’Arco specializzato in bibite, con cannuccia e senza, non avrebbe senso se non ponessimo la lente d’ingrandimento sulla verticale di un episodio apparentemente insignificante come quello di cui fu protagonista Moaveo – che era stato allevato sin da piccolo al culto della dea Europa – nell’essere cooptato dai Gialloverdi, ai quali l’Europa dei ‘conticini’ e dei norcini, di quelli che vanno tranquillamente a dormire con la matita appoggiata sopra l’orecchio, faceva venire, per loro stessa ammissione, le bolle dell’orticaria.
A dire il vero, la scelta di Moaveo – che cozzava come un pugno nell’occhio con l’euroscetticismo predicato dal nuovo Governo e che si tradusse nello sforzo titanico compiuto dal nuovo inquilino della Farnesina nel divenire invisibile ai radar – fece il paio con la conferma di Gabrielli a capo della polizia, che era come mettere una spia della STASI, Gunter Guillaume, accanto a Willy Brandt, all’epoca della Guerra Fredda, con la sola differenza che lì si trattò di una magistrale congiura ordita dai Servizi della RDT ai danni del blocco occidentale, mentre qui – roba di due anni fa – la dimensione dell’errore si stempera e si dissolve in quella della gaffe rivelatrice, fondamentalmente di due cose. La prima: che l’Opposizione fa finta di stare all’opposizione, ottemperando alla prima regola degli strateghi del NWO, che é quella di preservare la forma della democrazia con un’energia pari almeno a quanta se ne profonde per svuotarla del contenuto. La seconda: che la politica estera, quale attività volta a difendere gli interessi del Paese all’interno delle relazioni internazionali, é ormai il pallido ricordo di quando l’Italia era uno Stato sovrano, sia pure con le limitazioni dovute all’essersi tesserata per la NATO e l’essersi dovuta inserire nell’orbita americana per non trovarsi disarmata di fronte all’orso sovietico. La fatale conseguenza di quest’ultimo step verso il nulla é che, non essendoci più una politica estera, non c’é più nemmeno bisogno di un ministro degli Esteri, un inutile segnaposto sul tavolo intorno al quale si radunano i notabili del Governo, un titolo ch si regala volentieri a chi – essendo nano – s’illude di essere diventato un gigante; a chi accetta – non é la peggiore delle disgrazie – l’idea di tacere, a corto di stimoli e di argomenti, per aggiungere un’altra riga al proprio palmares; a chi arde dalla voglia di prendersi una rivincita su quel vecchio professore che gli aveva dato quattro in Geografia e tre in Storia tanti anni fa.
So – senza aver mai visionato le carte – che gli assi lungo i quali si muove – facendo finta di muoversi – la politica estera dei gabinetti che si sono succeduti da 1992 – anno maledetto – sono quello europeo, quello mediterraneo e quello globale: un rapporto di stretta interdipendenza fra i tre ‘cesti’, che hanno però come denominatore comune l’acquisizione da parte del Paese dello ‘status’ di attore subalterno agli USA; di membro caudatario dell’UE, a rimorchio della doppia locomotiva formata da Germania e Francia; di spettatore in fase di chilo postprandiale tra gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, dove assiste impotente alle invasioni barbariche dal Nord-Africa ed é riluttante ad ordinare un blitz per la liberazione dei pescatori siciliani rapiti dai libici, per una serie di motivi che sono molto più numerosi dei vincoli contratti con USA e UE, e che si rinvengono scandagliando con lo specillo tra le viscere di questo mostro immane che si chiama cattocomunismo, una specialità tutta italiana nella quale confluiscono, da un lato, il ripudio, per partito preso, di qualunque iniziativa comporti l’uso anche centellinato della forza, perché implicitamente ‘fascista’, e, dall’altro, l’accettazione acritica del principio secondo il quale l’arma della diplomazia, soprattutto se usata di concerto con agenzie, come l’ONU o la Corte dell’Aja’ (che peraltro non vivono di vita propria, soggette, come sono all’influenza delle grandi potenze), esaurisce nel proprio seno tutte le opzioni possibili in materia di contenzioso internazionale.
Da quest’Italietta, che attesta la ritrovata attualità dei versi 76 e 78 del Canto VI del Purgatorio, é dunque difficile estrarre anche il più piccolo campione di politica estera, che non sia la propaganda pacifista svolta con qualche successo dalla Comunità di Sant’Egidio nei distretti periferici del pianeta, o l’intraprendenza dell’ENI, che dai tempi di Mattei agisce spesso per proprio conto, con un proprio know-how, nelle aree su cui si polarizza il confronto tra gli Stati per la ricerca e la conquista delle fonti energetiche, quasi sempre prima che se ne occupi la Farnesina, e talvolta senza di essa.
Una bellissima architettura, con un numero impressionante di uffici, 1300, che fa concorrenza al Pentagono: la Farnesina é una costruzione risalente al secondo decennio del fascismo, che fu adattata per magnificare il destino di un Paese che aveva i calzoni corti e che razzolava, circonfuso della luce dell’alba, fra le gambe di scabri gaglioffi. Adesso il ministero degli Esteri ha, rispetto a prima, l’inopinabile privilegio di esserlo anche della ‘Cooperazione internazionale’, laddove ‘cooperazione’ sta per essersi diplomati a pieni voti alla scuola per camerieri ed é sinonimo di tante nobili occupazioni, come ritirarsi in buon ordine in casa propria e trincerarsi impauriti dietro le persiane se abbaia il turco, o andare a leccare le ferite degli altri mentre gli italiani debbono farlo da soli.
Un edificio imponente, con tante finestre, la più alta concentrazione al mondo di scrivanie. E una distesa interminabile di telefoni. Pronto! Pronto! Hello! Please! Chiamano da Bruxelles, da Berlino, da Washington, talvolta anche da Misurata, e parlano arabo. Fa sempre comodo avere un ufficio di rappresentanza a Roma.
Si dice che di notte, quando non c’é più nessuno e la luna irrompe, bianca e rotonda, da qualche finestra lasciata aperta, si senta una voce, come un gemito che rimanga strozzato in gola, e che cada di tanto in tanto qualche oggetto, una volta il ritratto alla parete di Mattarella, un’altra, l’attaccapanni di Sua Acconidscendenza il Ministro.
Qualcuno sostiene di avervi riconosciuto la presenza di Mussolini, ma c’é anche chi propende per Andreotti. Imperversa il totoscommesse.