Cinquant’anni fa, uno dei più gradi scrittori del Novecento, Yukio Mishima, compiva il suo seppuku. A ripercorrerne la vicenda esistenziale e soprattutto la cifra stilistica della sua narrativa giunge l’ultimo libro di Danilo Breschi – Yukio Mishima. Enigma in cinque atti – pubblicato per la milanese Luni, da sempre molto attenta alle tradizioni e alle culture orientali. Il libro conduce il lettore attraverso l’enigma-Mishima, una sorta di nodo di Gordio che deve essere sciolto e non tagliato, come spesso avviene in una lettura ideologizzata, in un senso o nell’altro, che rischia di far dimenticare la grandezza della sua letteratura.
Cinque atti, ma forse sarebbe meglio dire “vie” – dṑ, in giapponese- che mettono sulla scena o conducono verso uno scrittore che seppe unire, come pochi altri o forse nessun’altro, le due antinomie che costituiscono la letteratura: l’arte e la vita. Mishima seppe scrivere con la spada la sua narrativa urticante e provocante, suadente e mai consolatoria; ma seppe usarla con la delicatezza e la raffinatezza del kendo, arte in cui raggiunse il quinto dan. La vita come opera d’arte – e l’autore sottolinea gli addentellati con D’Annunzio – ma soprattutto l’opera d’arte come vita; ma se l’opera d’arte che ogni artista sogna di realizzare deve elevarsi all’eternità del suo valore, anche la vita va sottratta al decadimento e all’irrilevanza. Di qui, non tanto la necessità di scolpire il proprio corpo per offrirlo alla sofferenza di cui è concreta espressione l’amata figura di san Sebastiano, quanto di morire con una libera scelta che non possediamo per la nascita. Non a caso, il biglietto scritto prima di morire, invoca il superamento della morte; e non è speranza o illusione, quanto dichiarazione di ciò che il gesto supremo gli avrebbe assicurato. Il suo seppuku è un rito che si riproduce perpetuamente a denuncia di un presente di decadenza, chiuso nel proprio benessere animale, incapace di coltivare quei valori dinanzi ai quali la vita biologica si rende insignificante. Come scrive l’autore, Mishima si fece samurai per tradizione e romanticismo, consapevole che la decadente modernità andava colpita con uno schiaffo sul viso perché, se non imparasse, almeno non potesse più dimenticare che un passato di grandezza era stato possibile.
Certo, Mishima si rivolge soprattutto a Yamato, al suo amato-odiato Giappone, che tra occupazione e destrutturazione americanizzante ha pagato un prezzo alto e drammatico quanto le due atomiche; ma la sua voce si ripercuote anche su di un Occidente, sempre più slabbrato e liquido. Per i cinquant’anni dal rito che ha accomunato Mishima agli spiriti eroici, molti sono stati gli omaggi, persino un fumetto, e tra questi il libro di Breschi, si segnala come uno dei più interessanti e stimolanti.