La sola ragione di vivere

 

La sola ragione di vivere

Ritorno sulla Carta del Carnaro (lo Statuto della Reggenza del Carnaro) proclamata da Gabriele D’Annunzio a Fiume l’8 settembre 1920, di cui ho scritto la settimana scorsa. Opera redatta da Alceste De Ambris, nuovo Capo di Gabinetto dopo che nel novembre del ’19 l’ala nazionalista del movimento (Giovanni Giuriati, Luigi Rizzo ed altri) aveva abbandonato il Comandante e l’ostinazione a non cedere ai dettami del governo di Roma. Soprattutto per quelle spinte più estreme, libertarie e socialiste e di liberazione nazionale (ad esempio contro il tallone dell’imperialismo inglese) che avrebbero voluto rendere Fiume simile a detonatore di una esplosione a coinvolgere tanta parte d’Europa e non solo. Lenin e Troskji si espressero con attenta simpatia. De Ambris proveniva dal sindacalismo rivoluzionario, interventista (basti ricordare Filippo Corridoni, volontario e caduto sotto il monte San Michele nell’ottobre del ’15, ove s’erge una stele), avverso all’Inghilterra e all’America, espressione della ‘feroce e usuraia egemonia mercantile’. Con D’Annunzio, dunque, nacque e trovò connubio, idee e parole, il progetto di uno Statuto, appunto, a dare il significato più alto e svincolato dal contingente momento storico. Per cui, scrivevo e qui confermo, conta poco la breve durata dell’impresa di Fiume – pochi mesi dopo il ‘Natale di sangue’ avrebbe decretato con le armi la fine di quell’esperienza -, ciò che conta che furono espresse idee a cambiare il mondo (il centenario della nascita del partito comunista con la scissione di Livorno, gennaio 1921, dovrebbe ricordarci non solo i tanti errori i troppi orrori del comunismo, ma anche delle istanze e dei bisogni e delle percorrenze altre che maturarono nelle intemperie del primo Novecento e di cui, con Fiume ed oltre, il Fascismo fu nobile componente pur anch’esso con i suoi errori illusioni e qualche inganno di troppo).

Cito solo – qui la poesia del linguaggio di D’Annunzio si eleva tutta e tutto spiega – il punto XIV ove si legge: ‘… la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà; l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono; il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia ben eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo’. Che aggiungere se non parole inutili e sciatte?

Ulteriore motivo di rilettura. Perché vi sono parole preda del vento e parole scolpite sulla pietra. E, mi permetto, gesto di fierezza e di speranza, di dirmi come, in modo consapevole o meno, molti della mia generazione si bruciarono, i cuori ardenti e le menti avventurose, alla fiamma bella di analoghi principi. Facendo testimonianza dei fratelli a noi più grandi, quelli per intendersi che scelsero per non essere scelti dopo la viltà e il tradimento, e lascito, comunque e nonostante tutto eco della tradizione e nello spazio e nel tempo, ai più giovani che vorranno e sapranno raccogliere meglio e con maggiore frutto il seme generosamente sparso.

Torna in alto