Il nostro anteguerra viene scritto da Robert Brasillach quando era sotto le armi e nei mesi che videro la sconfitta rapida e rovinosa della Francia sotto l’incalzare ferrigno delle armate del Terzo Reich (settembre del ’39 – maggio ’40). Si dice che la vita è al suo epilogo quando diviene fonte di ricordo, quando si percepisce come i granelli di sabbia della clessidra, la misura del tempo, volgono al termine. Eppure ha compiuto da poco trent’anni, è nella pienezza dell’età, in quel passaggio – vi riflette bene ne I sette colori che è il romanzo suo più noto – dalla giovinezza alla maturità, presago forse che un plotone composto da dodici bocche da fuoco, avide del suo sangue, lo attende nel gelido mattino del 6 febbraio ’45 al forte di Montrouge. Certo egli si fa consapevole come la guerra in atto rappresenti la fine di una stagione e ad essa -‘l’atmosfera e il ricordo d’un certo tempo’ – dedica le pagine di questo libro. E del resto, così proprio dà inizio a questo viaggio a ritroso, ‘non si compera il sapore del passato’. Un affresco di volti di immagini di luoghi di idee di sogni. E sempre la gioia di vivere la giovinezza l’amicizia che sono la cifra del suo essere e ci incantarono e ci incantano tuttora, anzi, soprattutto ora, in un mondo costruito dal colore grigio di sconfitte viltà pessimismi e pandemia dello spirito.
Ho scritto sovente su Brasillach. Dai Poemi di Fresnes, che ho riproposto per Il Settimo Sigillo, ne trassi un incontro di poesia e musica, intitolato Le sbarre e le stelle. Inquieto Novecento e Strade d’Europa; poi introducendo l’opera sua di teatro Domrémy e una raccolta di articoli pubblicati su Je suis partout… In questi giorni ricorre l’anniversario del suo assassinio, perché di un assassinio si tratta. Eppure non riesco a privarmi del suo sorriso, pur venato da una traccia di tristezza annunciata, dietro gli occhialetti rotondi; delle pagine coinvolgenti sul linguaggio del corpo de La notte di Toledo, che lessi dopo averle sperimentate sulla carne e, sempre da La ruota del tempo (che prediligo fra i suoi romanzi), quella affascinante espressione ‘e noi viviamo nell’eminente dignità del provvisorio’ quale modello di vita.
Ce mal du siecle le fascisme, titolo di uno dei capitoli (dove quel ‘male’ di cui scrive non certo è la banalizzazione di cui sarà oggetto dagli odierni custodi e giustizieri del nostro presente, magari rafforzandolo con l’aggettivo ‘assoluto’), quel ‘mal’ consiste nel diffondersi (non di una pandemia indotta o meno) di un atteggiamento, di uno stile, di un sentire, insomma, come egli scrive di uno ‘spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione’. Parole queste di un poeta, poco di uno storico, si dirà… e da professore, ormai in pensione, ne posso convenire, ma ci siamo coniati a motto ‘faccia al sole e in culo al mondo’, che pur è un moto dell’animo, una sfida, uno sberleffo (quanto m’ha insegnato il ‘mio amico’ Cyrano). La rossa goccia di sangue che il suo avvocato, Jacques Isorni, raccolse dalla fronte su un pezzo di carta per portarla ‘a coloro che l’amano’ – come il sangue di tanti, troppi dei nostri – rimangono testimonianza di quella fierezza e di quella speranza (l’invito con cui si chiude la Lettera a un soldato della classe ’40) a cui non vogliamo venire meno.