APPROFONDIMENTI: Palamara, il Sistema e i pilastri della società
Nessun libro di attualità ha destato nell’autore di queste note l’interesse de Il Sistema, il cui sottotitolo è “Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”. Lo ha scritto, in forma di intervista con il giornalista Alessandro Sallusti, Luca Palamara, il magistrato che ha dominato “il Sistema” per oltre quindici anni, attraverso l’attività sindacale nell’Associazione Nazionale Magistrati, la perfetta conoscenza e il dominio del meccanismo delle correnti interne all’ordine giudiziario, la vicinanza alla politica e il controllo del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il primo elemento di stupore è la firma di Sallusti, direttore de Il Giornale, quotidiano di proprietà di Silvio Berlusconi. Solo vendetta, dunque, da parte di Palamara, da sempre schierato contro il Cavaliere e la sua coalizione politica, nei confronti di quel “sistema” di cui era uno dei domines, compattamente schierato a sinistra, che lo ha brutalmente scaricato sino al processo sommario davanti al CSM e la radiazione dalla magistratura? No, nel libro vi è molto di più, e comunque vale il contenuto, ciò che è detto. Dice la verità, l’ex grande burattinaio delle segrete cose del sistema politico-giudiziario? Riesce difficile pensare il contrario, tanto è puntigliosa, specifica, ricca di particolari la sua lunga narrazione-confessione. O Palamara è l’uomo dalla fantasia più sbrigliata del mondo, o il racconto, fatto di date, nomi, circostanze, rivelazioni, mette a nudo qualcosa che va oltre le più pessimistiche valutazioni.
E’ un libro che si legge come un giallo, con il fiato sospeso e l’ansia di arrivare sino in fondo. Somiglia a Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, in cui, alla fine, si scopre che non vi è un solo assassinio, ma i colpevoli sono tutti i passeggeri, ognuno dei quali aveva motivi per uccidere la vittima. Nel nostro caso, la vittima è l’Italia intera, non solo la giustizia. Nei romanzi gialli, l’ultima pagina è quella in cui si svelano moventi e azioni dell’assassino; nel libro di Palamara, l’excipit è una riflessione di Montesquieu, il filosofo francese primo teorico della divisione dei poteri dello Stato: non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e con i colori della giustizia.
Viviamo in una pseudo democrazia di cui il sistema giudiziario è uno dei pilastri. Molte cose le immaginavamo, altre potevano essere dedotte dalla successione e concatenazione di determinati eventi, ma non potevamo sapere fino a che punto il re è nudo, sino a dove si spinge il marcio da cui siamo circondati. Il rischio, come in ogni situazione di degrado consolidato è che non ci si riesca più a orientare e indignare.
L’ intera storia italiana dell’ultimo quarto di secolo va riscritta alla luce del libro, eppure a un certo punto ci siamo messi a ridere. Un riso amaro fatto di ricordi, studi e insegnamenti ricevuti. Tutto diventava surreale, insensato, pagina dopo pagina. Ci hanno insegnato a rispettare le leggi, perché senza di esse finisce la civiltà, ma aveva ragione la nonna con la sua diffidenza contadina: stai lontano dalla giustizia! Si rivelava un imbroglio l’educazione civica ricevuta alle scuole dell’obbligo. Fantascienza i concetti della filosofia del diritto e i fondamenti della costituzione. Il libro ha in appendice gli articoli della Carta che si riferiscono alla magistratura. A margine, abbiamo annotato con rabbia “la comica finale”, tanta è la distanza tra le leggi e la realtà descritta. Immenso è il discredito delle istituzioni, se possono essere occupate, distorte e piegate per quanto emerge dal racconto di Palamara.
Certo, non avrebbe aperto bocca se non fosse diventato egli stesso vittima del sistema di cui era uno dei perni, ma poco importano le motivazioni, rispetto all’enormità dei fatti. Palamara e le persone che cita sono – non “erano”, perché il sistema è perfettamente vigente – i pilastri della nostra società. Dicevamo di una lettura che si è avvicinata alla trama di un giallo, ma è più giusto paragonarla al dramma teatrale di Ibsen I pilastri della società. Al centro dell’opera sta il ricco e influente Karsten Bernick, uomo di potere alle prese con un progetto assai ambizioso, che fallisce in un progressivo processo di decostruzione e di smascheramento delle menzogne, degli intrighi, dei sotterfugi sui quali ha fondato vita e carriera. Al termine di questo processo giunge alla redenzione con la pubblica confessione delle colpe.
I fatti che riguardano Palamara sono noti. Nel 2017 il suo telefono viene intercettato attraverso un trojan. Un atto pesante, specie se a carico di un personaggio tanto esposto e di così esteso potere. L’ accusa più grave è di avere incassato denaro da un faccendiere, a pagamento di una nomina nella procura di Gela mai avvenuta. L’accusa cadde dopo poche settimane, “facendo sorgere il dubbio che fosse stata messa lì solo per giustificare l’introduzione del trojan nel cellulare” (pag. 10). Un dubbio che basta da solo a sollevare interrogativi inquietanti sulla giustizia italiana.
La versione di Palamara è raggelante: chi tocca certi fili, muore. I fili in questione sono l’egemonia della sinistra – politica, culturale, giudiziaria – ed l’azzardo massimo: mettere nell’angolo la corrente di estrema sinistra dei giudici, Magistratura Democratica, e con essa la sinistra giudiziaria in attività dal 1964 – c’era ancora Palmiro Togliatti! – con l’aiuto del PCI. Un geniale gioco di scacchi in stile gramsciano, il cui massimo esponente fu Luciano Violante, già magistrato e poi uomo di riferimento del PCI-PDS-DS. Il nemico, dice chiaramente Palamara, è “la non sinistra”.
Il colpo arriva nell’imminenza delle votazioni per una nomina cruciale, il vice presidente del CSM, da scegliere tra i membri politici dell’organo di autogoverno, ma eletto dall’intero Consiglio. Il prescelto era David Ermini, esponente renziano del PD, la posta in palio un’alleanza strategica tra la corrente di Palamara, Unicost e quella più a destra, Magistratura Indipendente. L’operazione ebbe il suo momento decisivo in un incontro riservato all’Hotel Champagne di Roma. Fu quello l’apice del potere di Palamara, e insieme l’inizio della sua caduta. Tra i presenti, un magistrato con precedenti di parlamentare PD, Cosimo Ferri, e Luca Lotti, stella del “giglio magico “renziano, ma anche indagato nell’inchiesta Consip.
La controffensiva è pesante e atterra Palamara, tra perquisizioni domiciliari, messaggi in codice da colleghi importantissimi, disvelamento di dettagli intimi – un’amante – e il progressivo abbandono dell’ex grande tessitore da parte di tutti, a partire dai molti beneficati. Il quadro è sconsolante: nessuna nomina negli uffici giudiziari sfugge alla lottizzazione e alla logica ferrea dell’appartenenza. I curricula si rivelano pezzi di carta ininfluenti e nessun colpo basso è risparmiato nella guerra tra correnti e ambizioni. Escono allo scoperto legami pericolosi, situazioni di conflitto di interessi, perfino episodi di mobbing, come quello che Palamara adombra a Milano carico di Clementina Forleo, la procuratrice che portò allo scoperto il caso Unipol e le conversazioni tra D’Alema, Fassino e vertici bancari “amici”. Prontamente rimossa – la velocità variabile è uno degli elementi della “giustizia” confermati da Palamara – la Forleo fa parte ora della magistratura giudicante.
Ecco un altro nodo: le porte girevoli tra due funzioni tanto diverse, quella di accusatore – la Procura – e quella di giudice – il Tribunale. Una commistione di professionalità, stanze adiacenti, interessi e carriere che non si riesce a sciogliere. Il voltaggio dei fili degli interessi di potere è davvero mortale. Il cittadino comune potrebbe meravigliarsi per l’interesse prevalente a controllare le procure, più che i collegi giudicanti. La chiave sta nell’immenso potere di chi indaga, accusa ed entra nella vita di tutti: cittadini comuni, sistema economico, politica. I giudici sembrano una sorta di parenti poveri, figli di un Dio minore, eppure sono loro a pronunciare le sentenze, precedute dalla formula “in nome del popolo italiano”, che non commentiamo per carità di patria.
Immenso è il potere conferito dall’art. 109 della Costituzione: l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. L’azione penale è obbligatoria, ma come nasce, nei fatti, la notitia criminis? Spiega Palamara: molte inchieste “partono dalla cosiddetta velina, cioè una soffiata, una segnalazione anonima più o meno verosimile, spesso confezionata dai servizi segreti o da faccendieri interessati a una certa pratica”. Afferma altresì l’importanza delle relazioni con gli apparati riservati dello Stato, nonché la vigenza della regola del tre. “Le tre armi del Sistema: una procura, un giornale amico, un partito che fa da spalla politica “. E la giustizia? Domanda retorica.
Palamara rievoca alcuni episodi significativi: le sentenze del caso Ruby, devastante per l’immagine di Berlusconi, assolsero il Cavaliere. In quel caso la giustizia arrivò a smentire se stessa: il presidente del tribunale lesse la sentenza di assoluzione e annunciò le sue dimissioni … contro la sentenza. “Berlusconi non può né deve essere assolto da un legittimo e libero tribunale “, parola di Luca Palamara. Il clima della Cassazione, la S.C. (Suprema Corte) nel gergo giuridico, non è diverso. La sentenza che condannò Berlusconi e portò alla sua estromissione dal parlamento in base all’interpretazione estensiva della legge Severino fu preceduta da pressioni immense, provenienti dai più alti livelli, tanto che uno dei membri del collegio giudicante, Ercole Aprile, rivelò “ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare “. Un altro dei giudici, Amedeo Franco, deceduto, espresse analoghi concetti. A nessuno venne tuttavia in mente di denunciare.
L’ex tessitore si toglie più volte sassolini dalla scarpa anche sul ruolo attivo svolto da Giorgio Napolitano negli affari giudiziari al tempo della sua lunga permanenza al Quirinale. L’ex presidente è descritto come regista occulto di varie situazioni a cavallo tra giustizia e politica.
Il Sistema, insinua Palamara, riesce a orientare anche il lavoro della Corte Costituzionale, attraverso gli assistenti di studio, magistrati dell’Ufficio Studi del CSM che “preparano al supremo giudice l’impianto giuridico e dottrinale di una sentenza; quindi hanno un enorme potere di indirizzo e orientamento, in base al loro sentire politico e ideologico “. Scacco matto, ancora una volta. La magistratura, continua il racconto dell’insider, è in grado di indirizzare la nomina del ministro di giustizia. Rivelatore è il veto posto a Nicola Gratteri, il magistrato antimafia calabrese, inviso a una parte della sinistra politica e giudiziaria, la cui nomina, voluta da Renzi, fu bloccata a vantaggio di Paola Severino, l’autrice della legge che cacciò Berlusconi dal parlamento.
A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina: era la regola di Andreotti, che il potere frequentò ed esercitò per oltre mezzo secolo. Quella legge, attraverso un’interpretazione discutibile, per alcuni viola il principio di non irretroattività di ascendenza romanistica, recepito dall’art. 11 delle Preleggi.
La Procura di Milano è definita un “fortino” e la ricostruzione pignola della lunga lotta tra il procuratore Bruti Liberati – uno dei rappresentanti più in vista di Magistratura Democratica- e il suo vice Robledo, conclusa con le dimissioni di quest’ultimo, getta ombre pesantissime sul clima, anche umano, di certi ambienti. La sensazione del lettore è di navigare tra veleni, imboscate, interessi politici e di carriera. Abbondano le indicazioni su sentenze interne al CSM anticipate in maniera informale. Un quadro impressionante; la speranza è che Palamara esageri per rancore, ma è chiaro che, al di là del merito di alcune inchieste, le faide interne sono pesantissime e nessun colpo è risparmiato all’avversario. Lo sanno bene Luigi De Magistris, la cui inchiesta Why Not che disarcionò Prodi fu certo spericolata, ma al quale scassinarono la cassaforte per sottrargli gli atti e un ‘altra discussa “star” come l’anglo napoletano John Woodcock.
Il caso dell’inchiesta su Salvini per il suo operato di ministro dell’Interno sbigottisce, nella ricostruzione di Palamara, che si è spinto fino alle scuse pubbliche al capo leghista in un programma televisivo. Vengono alla luce conversazioni e messaggi in cui alcuni spronano il pm agrigentino Patronaggio ad agire contro Salvini, mentre il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma scrive chiaro e tondo a Palamara: “mi spiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministero dell’Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco che cosa c’entra la procura di Agrigento”. Tienitelo per te, conclude il magistrato laziale.
La risposta è terribile: “hai ragione. Ma ora bisogna attaccarlo”. Ciò che poi Palamara fece in dichiarazioni pubbliche. Si tratta forse del bispensiero di orwelliana memoria? Proprio questo episodio, tuttavia, dimostra la veridicità della ricostruzione di Palamara, che non esita ad accusare se stesso di doppiezza. Non mancano nel libro accenni a episodi squallidi, come le presunte molestie sessuali di un magistrato di primo piano nei confronti di una collega, che lo chiama apertamente “il porco”, nei messaggi privati citati nel libro. L’episodio è importante per la difesa preventiva ed irrituale di autorevoli colleghi di corrente al protagonista maschile, che si vide comunque bloccato nella sua corsa alla direzione della procura capitolina.
L’intera storia politica e giudiziaria d’Italia esce completamente ribaltata dal libro. Poco importa il destino personale di protagonisti e comprimari; impressiona il quadro che ne scaturisce. L’Italia è ostaggio di molte caste e di vari poteri forti. Uno è la magistratura organizzata, altra cosa del lavoro spesso difficilissimo di molti. Se è vera solo la metà della metà di quanto affermato nel libro, dovranno essere riscritti i libri di storia e rivista l’intera vicenda nazionale alla luce di una guerra violentissima all’ombra di leggi e toghe.
A ogni lettore il libero giudizio; a ciascun italiano perbene il brivido gelato di avere a che fare con il “Sistema”. Dio ci scampi, poiché è davvero ottimistico il detto popolare “male non fare, paura non avere”. Noi abbiamo paura.