APPROFONDIMENTI: C’è una strada nel bosco
Se non ora, quando? E’ urgente, indispensabile, organizzare un forte contrattacco culturale nei confronti del Grande Reset, dell’egemonia della correttezza politica, dell’arroganza vittimista degli indignati e degli offesi. Occorre fermare e invertire la cancellazione di una civiltà- la nostra- che ha tremila anni; contrastare la narrazione liberista e la riduzione del mondo a monopolio privato di pochi giganteschi gruppi finanziari, economici e tecnologici. Vasto programma, ma non esiste alternativa. O si muore soffocati o si esce dal guscio. Il problema è enorme: da che parte andare, quali principi difendere, a quali interessi, ceti e gruppi sociali rivolgerci?
Poeticamente abita l’uomo, sosteneva Martin Heidegger. Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, scrisse Friedrich Hölderlin. Iniziamo la riflessione con un verso sciolto della poetessa Alda Merini: “il verme non sceglie mai di vivere in una mela marcia. Sceglie sempre di far marcire una mela sana. “C’è già, in nuce, il discrimine tra amico e nemico. L’amico è colui che sa di vivere in un campo di mele marce. Il compito, titanico, è salvare gli alberi e i frutti ancora sani e su di essi ricostruire. Se crediamo di essere immersi nella “notte del mondo”, dobbiamo avere il coraggio di insorgere e di battere strade nuove. Le vecchie sono ostruite o crollate.
Anche i segnavia sono cancellati, non resta che farsi strada in un bosco marcito per il lavorio incessante dei vermi. C’è una strada nel bosco fu una splendida canzone nata sotto i bombardamenti del 1943, inno di vitalità e speranza. Quando tutto è negato e la verità è scossa dalle fondamenta, è alla verità che occorre aggrapparsi ed incalzare il nemico, ripartendo dai fondamenti. Rifiutare l’imbroglio del politicamente corretto che scinde il linguaggio dalla verità. La neve è bianca, i sessi sono due, il bene e il male esistono, ci sono un padre e una madre, l’erba è verde in primavera. Solo la verità rende liberi, e la libertà è la grande riconquista a cui tendere.
Impoverimento, intrusione del biopotere nella sfera intima, sorveglianza, distruzione della civiltà, capovolgimento dei principi e dei significati, il male al posto del bene, la menzogna al potere, uniti con l’impoverimento materiale, la distruzione della speranza in milioni di cuori. Reset significa cancellazione, dovremmo fare più attenzione alle parole. Non ci si può limitare ad opporsi a questa o quella politica, ma costruire un fronte tra i non garantiti di oggi e di domani, poiché il grande reset concentrerà ulteriormente potere, conoscenza e redditi verso l’alto, schiacciando la libertà, diffondendo miseria e proibendo il dissenso.
La metafora della mela fu utilizzata da Tommaso d’Aquino in una lezione: se non credete che questa è una mela, ammonì, uscite dall’aula. Nella notte del mondo, una mela è un cocomero o qualunque altra cosa, se il dispositivo del potere così decide. Per noi, la mela resta una mela, anche se la legge degli uomini accecati prescrive il contrario. C’è una strada nel bosco, ma bisogna avere il coraggio, prima, di “passare al bosco”, nel senso indicato da Ernst Junger, diventare ribelli, smettere di confidare nel sistema o immaginare che sia possibile riformarlo dall’interno. L’egemonia del verme, padrone della mela, ci contagerà, come ha fatto con troppi altri prima di noi.
Non vi è che la via più stretta ed impervia, procedere passo passo per ricostruire il sentiero. E’ una giungla, là fuori, ma dobbiamo attraversarla, piantare semi e tessere pazientemente la tela dell’egemonia. Scriveva Antoine Saint Exupéry in Pilota di guerra, osservando le rovine: “l’unica vittoria di cui non dubiterei mai è quella racchiusa nel potere del seme. Appena viene piantato nella terra scura, il seme è già vincitore. Ma per assistere al suo trionfo nel grano bisogna che il tempo si dipani. Non mi preoccupo del fango se in quel fango si nasconde un seme. Il seme lo assorbirà per costruire”.
Gettare semi, piantare alberi richiede fiducia nel futuro e una grande generosità: inevitabilmente i frutti saranno colti da un’altra generazione. L’obiettivo è riprendere l’egemonia perduta, recuperare l’anima, il cervello, il senso comune conquistato dal nemico. Per riuscirci, è essenziale la lezione di Antonio Gramsci. E’ arduo indicare come modello qualcuno di cui non si condividono gli obiettivi, ma è impossibile individuare, nel deserto del pensiero tradizionale, maestri di strategia migliori dell’intellettuale sardo, il cui concetto di egemonia oltrepassa lo scopo per cui venne teorizzato. L’egemonia culturale è la chiave per conquistare e mantenere il dominio politico e sociale attraverso il consenso.
Lasciamo da parte i motivi per cui è stata perduta e concentriamoci sul fatto che non abbiamo combattuto, né in difesa né in attacco, abbiamo subito per generazioni l’iniziativa di chi era interessato a “decostruire”, far marcire la mela. Abbiamo abbandonato senza reagire le casematte del potere. Una lezione gramsciana è che la classe dominante può evitare scontri pericolosi realizzando rivoluzioni passive, il metodo dell’”americanismo”. La lezione è stata applicata dalle élite neoliberali, che hanno volto a proprio vantaggio il Sessantotto, la rivoluzione sessuale, il femminismo, la secolarizzazione.
“La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere”. Le culture di ispirazione non marxista e liberalprogressista sono – oggi più che mai – dominate, in via di sottomissione. E’ impossibile anche attribuire loro un nome. Quando si alleano con i dominanti non sono che burattini o semplici esecutori di direttive imposte dall’alto.
La vittoria postuma di Gramsci sta nel fatto che ha ispirato una duratura classe di intellettuali, alcuni dei quali sono diventati dirigenti politici. L’esatto contrario della tattica inconcludente della “destra”. Una formula gramsciana è l’importanza delle categorie di pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Realismo, capacità di attendere e di fare passi indietro, ma ferrea concentrazione sull’obiettivo, cambiare l’ordine esistente. Un altro segnavia sono le tesi del linguista George Lakoff sull’importanza della metafora. Le metafore sono costruzioni concettuali centrali nello sviluppo del pensiero, delle credenze e dei convincimenti. Il sistema concettuale nei cui termini pensiamo e agiamo ha natura essenzialmente metaforica. Per Lakoff esistono metafore distinte nelle menti dei conservatori e dei progressisti. Questi mostrano interesse a quelli che chiama “valori di sostegno”, l’educazione, la custodia e la cura – in generale di segno femminile – gli altri prediligono il fascino della bellezza e della certezza morale. Politiche identiche sono razionalizzate in modo diverso in base alla prevalenza dell’una o dell’altra metafora.
Abbiamo accumulato un ritardo drammatico, che la capacità di utilizzare i nuovi media non ha colmato. Quell’abilità ha costituito un campanello d’allarme presso l’avversario, che sta precipitosamente chiudendo tutti i canali di comunicazione in cui si era attivamente inserito il pensiero alternativo. Siamo all’anno zero e la strada nel bosco dovrà essere tracciata con le sole nostre forze, senza mappe, nell’ indifferenza e nel sarcasmo supponente non dei nemici, ma di chi, a livello politico, dovrebbe supportarci. I cani latrano, la carovana passa. Per passare, tuttavia, la carovana deve aprirsi la strada. Di fronte all’egemonia culturale, al predominio schiacciante dei mass media e alla capacità di stabilire la struttura mentale della maggioranza del progressismo, non abbiamo ancora trovato le armi concettuali, la forza del discorso, la vis attrattiva, i registri emotivi che consentono di ingaggiare la battaglia contro un nemico formidabile.
Ciononostante, il fenomeno Trump in America, la persistenza dei Le Pen in Francia, l’attrattiva del duo Salvini-Meloni in Italia, i casi polacco e ungherese, l’avanzata di Vox in Spagna e, recentissima, la rinascita di una destra popolare in Portogallo, dimostrano che lo spazio esiste ed è in crescita. Ciò che manca è il fronte, ovvero una rete articolata di strutture culturali, sociali, editoriali, di interessi diffusi che contenda l’egemonia all’avversario.
Su questioni come la teoria del genere, l’approccio al cambiamento climatico, la difesa dell’ambiente, l’aborto, l’istruzione, la bioetica, ma anche sui temi della finanza , dell’economia monopolistica, della precarizzazione sociale, dello smantellamento delle identità spirituali , nazionali e politiche, delle libertà conculcate dalla tecnologia e dalla sorveglianza, della riduzione della persona a materiale plasmabile e compravendibile, l’ erosione della dimensione pubblica e statuale, dell’attacco allo stato di diritto, della decadenza delle istituzioni elettive, siamo pressoché ininfluenti.
L’egemonia è nelle mani del progressismo globalista, singolare ircocervo capitalista nella variante comunista. Privatizzazione oligarchica più potere piramidale, uniti in un regime totalitario che unisce l’aspetto più disumano del capitalismo con quello più atroce del comunismo, coniugando l’alienazione dei rapporti fra gli uomini con un controllo sociale senza precedenti. Non un avversario, ma un nemico assoluto.
L’approccio seguito dalle destre rinchiuse nel cerchio del sistema a rappresentarne la variante liberale classica, ovvero il trapassato remoto, può essere ricondotto a tre tattiche diverse, miopi e perdenti. La prima consiste nell’accettazione parziale delle tesi altrui, sfumate, addolcite e temperate, per conquistare la fascia tiepida della cittadinanza. Su tutto si cede progressivamente fino a confondersi con la controparte, per calcoli di corto respiro, pigrizia, incapacità di una visione alternativa, mancanza di fiducia nelle proprie idee. Una destrina a rimorchio, confusa e confondibile, un po’ vigliacca e molto opportunista, felice di essere accolta nel salotto buono, affidabile per i padroni del vapore.
La seconda è la tecnica dello struzzo, che nasconde la testa sottoterra. Si rinuncia alla battaglia delle idee, non se ne parla né vi si accenna, si evita il confronto su valori e principi, limitandosi alla gestione economica, l’amministrazione delle cose che ora chiamano governance, la tecnica del potere fondata sull’esistente, senza progetti, diretta dalle oligarchie economiche e finanziarie, cui si aggiungono le burocrazie transnazionali e i colossi BigTech. E’ una maschera che ignora i sentimenti della gente, interessata alle fobie e alle filìe istintive, le “metafore” di Lakoff, più che agli istogrammi e agli zero virgola delle statistiche. Spesso vi aggiunge indolenza, indifferenza culturale, cinismo.
Il terzo comportamento è la magniloquenza trombona, l’attacco duro ma sgangherato, emotivo, accompagnato da gesti e atteggiamenti di sfida, il rimpianto per un inesistente buon tempo antico. Un modo di intendere la lotta politica, intellettuale e morale contro il globalismo relativista e i suoi travestimenti neo-marxisti che contiene verità innegabili e ha conseguito successi, ma finisce nella coreografia retorica che facilita enormemente la demonizzazione, la caricatura, la ridicolizzazione e la fabbricazione fraudolenta di cattivi assoluti (Salvini in Italia, Trump in America), ai quali il nemico attribuisce ogni male. E’ la reductio ad Hitlerum nella quale eccelle il clero secolare mediatico e culturale.
Non resta che il paziente lavoro di costruzione della strada nel bosco. La chiusura della mente fa sì che manchino le parole per il pensiero critico. Se esiste un pensiero che tende a farsi unico, il primo modo di farsi strada è pensare altrimenti. I regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Pensare altrimenti significa parlare altrimenti: rigettare il linguaggio politicamente corretto, la neolingua che impone di scindere la verità – quello che vediamo, il giudizio che ne diamo – dalla sua rappresentazione verbale. I padroni delle parole sono i padroni del mondo; bisogna contendere loro i significati, rammentando la lezione di George Orwell sui totalitarismi: la verità è menzogna, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. E’ una scelta strategica del potere espropriare le masse delle parole, allontanarle dalla conoscenza, riempirle di “diritti” nella sfera pulsionale, orientarle all’ irresponsabilità a vantaggio della comodità. Combattere la guerra delle parole è la prima battaglia di chi passa al bosco.
La seconda è uscire definitivamente dalla gabbia liberale. Oggi tutti si dichiarano liberali, ma l’unico liberalismo da salvare è quello la cui intenzione morale è andata perduta per la prevalenza schiacciante della dimensione economica- il liberismo – e la vittoria dell’indifferentismo morale e religioso. Il liberalismo “buono” è un habitus etico spirituale, il diritto che la maggioranza attribuisce alle minoranze, “la decisione di convivere con il nemico, e di più, con il nemico debole” (J. Ortega). Anticaglie. Al liberalismo reale interessa esclusivamente difendere la proprietà privata dei giganti, confinare nell’intimità i sentimenti morali e religiosi e rendere ininfluente la dimensione pubblica a vantaggio degli interessi privati e dell’egemonia della dimensione economica. E’ la teorizzazione della legge del più forte e del più ricco. Scriveva Werner Sombart: “l’economia non è il nostro destino; non esiste un sistema di leggi economiche autonome, vale a dire: l’economia non costituisce un processo naturale, ma è una creazione culturale scaturita dalla libera scelta degli uomini. Sicché, anche il futuro dell’economia, o di un determinato sistema economico, è rimesso alla libera volontà di uomini”.
In Elogio dell’appartenenza (Passaggio al bosco, 2020) sottolineavamo la necessità di ritornare comunità. Appartenere è bisogno primario dell’uomo. “In ogni comunità vi è sempre qualcosa, un principio, un luogo, una storia, una credenza collettiva a cui è attribuito un carattere superiore, trascendente. E’ un recinto sacro, il tempio che contiene quanto di più prezioso possieda quella comunità. Il tempio è importante, intangibile, superiore a tutto perché è patrimonio comune indisponibile.” E’ sacro perché non è in vendita. La comunità è il luogo i cui valori non sono compravendibili, nel quale si praticano la gratuità e la solidarietà, in cui non si misura in denaro.
La censura esercitata dal potere culturale progressista al servizio della cupola economica e tecnologica, crea un paradossale sistema di valori vuoti di significato. Lo scrittore francese Lèon Werth esortava ad appartenere a una civiltà, non a una tribù: “Mi devo a una civiltà. Non ho altro modo di vestirmi. Non posso uscire completamente nudo”. L’obiettivo del nemico è lasciarci nudi e poveri: di diritti, di principi, di libertà. Ma non si è civiltà se non esiste qualcosa che lega; di qui l’importanza di rilanciare comunità e identità, ciò che unisce e differenzia in un mondo in cui tutto è equivalente, quindi irrilevante. Le nazioni muoiono, sostituite da megacorporazioni con diritto di vita e di morte. La sottomissione avviene attraverso la chiusura mentale e spirituale. Il Nuovo Ordine si è disfatto dell’illusione democratica e ha preso il controllo delle nostre vite. Dunque, la strada nel bosco deve contenere un forte appello alla libertà, intesa come partecipazione, padronanza di noi stessi. La libertà non è il diritto del più forte e nessuna idea può essere vietata.
Siamo chiamati alla resistenza, non all’opposizione. Impoverimento, precarietà esistenziale, competizione sfrenata, l’Altro come nemico e concorrente, intrusione del biopotere nella sfera intima, sorveglianza, distruzione della civiltà. Non ci si può limitare a contrastare questa o quella politica, ma fondare un radicale antagonismo. Nessuna destra, nessuna sinistra, ma un fronte, un’alleanza tra i non garantiti di oggi e di domani. I segni sono sinistri: diritti fondamentali derogati, stretta sulla mobilità, imposizione della didattica a distanza e del telelavoro. Erano prontissimi e hanno agito senza indugio. Ci siamo lasciati sorprendere; hanno chiuso fabbriche, uffici, negozi, scuole. E poi musei, biblioteche, cinema e teatri: la cultura contagia. Siamo a un tornante della storia. L’egemonia perduta si ricostruisce tracciando segnavia, indicazioni lungo il sentiero per riconoscerlo. Armati di picca, pala e passione, ribelliamoci e organizziamoci.