Scuola di Pensiero Forte [104]: l’ordine del potere in relazione al Bene Comune
Dell’ampia disamina fatta sul potere, bisogna trarre delle conclusioni. Converremo brevemente, a partire dall’esperienza comune, che il potere è parte integrante della vita sociale, anzi quasi è impossibile trovare una società in cui non vi siano dinamiche di potere. Qui bisogna fare una precisazione, per fugare ogni confusione possibile: ad essere presente in ogni forma associata umana non è tanto il potere in sé, ma l’ordine politico, ovvero l’ordine delle cose volte alla realizzazione del Bene Comune. Il potere si configura, allora, come esercizio sostanziale dell’ordine, sua manifestazione fra i membri della società. Questa, però, non è una sostanza a sé, ma una relazione di sostanze, e il Bene che persegue è quello di tutti e di ciascuno, cioè un bene che non deve mai togliere all’individuo quello che gli è essenziale per essere uomo; non un bene a sé stante, perché appunto la società non è una sostanza a sé, ma quel bene che rifluisce sui singoli per il fatto della loro unione e partecipazione.
Facendo un rapido ripasso del concetto di ordine abbinato al termine “sociale”[1], ricorderemo che questo significa una disposizione regolare di più cose collocate secondo un criterio organico e ragionato, con il fine di rispondere a praticità, opportunità, armonia e simili. L’ordine è un aspetto proprio di tutto l’universo, ogni cosa è ordinata con precisione secondo leggi fisiche e matematiche ed anche la vita umana richiama, e vuole idealmente rispecchiare, un ordine necessario per raggiungere il fine stesso della società. Non possiamo vivere senza avere un ordine, senza darci un ordine, perché esso stesso è regola di funzionamento di una grande varietà di cose, sia interiori a noi, come il pensiero, sia esteriori. L’ordine sociale è il codice genetico della società: questo codice determina tutto lo sviluppo dell’organismo societario, stabilendone gli assiomi morfologici, i meccanismi relazionali, le micro e macro interdipendenze, manifestandone il fine ultimo.
Assodato che la natura umana è una natura sociale, sorge l’esigenza che tra le persone ci sia qualcuno che indichi la direzione e conduca al fine ultimo, ed è ciò che chiamiamo governo, dunque esercizio del potere, altrimenti la pluralità si disunirebbe in una serie di individualità che ricercano solo il proprio interesse. C’è una distinzione doverosa a questo punto: esiste un fondamento razionale che giustifica il fenomeno, in quanto “proprio” e “comune” non sono la stessa cosa: il proprio è principio di differenziazione, mentre il comune di unificazione. Ecco perché oltre al principio che stimola il singolo al bene proprio, esigiamo un principio che promuova il bene dei molti. Quando tutte le cose sono in funzione dello stesso fine, stiamo parlando di ordine volto al Bene Comune.
Volendo specificare ancora meglio questo aspetto, riprendiamo le parole di San Tommaso d’Aquino, il quale nel Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele sostiene che, essendo l’uomo per natura animale sociale, in quanto ha bisogno per la sua vita di molte cose che da solo non può procurarsi, ne consegue che, sempre per natura, egli è pars alicuius multitudinis, parte di una multitudina, dalla quale riceve aiuto per vivere bene (ad bene vivendum). La moltitudine a cui fa riferimento è anzitutto quella domestica, vale a dire la domus, la famiglia, di cui l’uomo è parte e da cui riceve le cose necessarie per vivere; c’è anche un’altra moltitudine dalla quale egli riceve aiuto per la perfetta sufficienza della vita (ad vitae sufficientiam perfectam), cioè non solo per vivere ma anche per vivere bene che è la multitudo civilis, moltitudine di cittadini, ossia la città (civitas). Secondo quando stabilito dalla dottrina aristotelica, felicemente ribadita dall’Aquinate, l’uomo è parte della società politica; la società a cui Tommaso fa riferimento, si badi bene. non ha però nulla a che fare con lo Stato nel senso moderno del termine, ma è come già detto la civitas, traduzione letterale della polis greca, che indica non l’agglomerato urbano e nemmeno il territorio, bensì l’insieme dei cittadini riuniti con uno scopo. Il Bene Comune su cui l’ordine della società si erge è riassumibile come segue: ogni scienza, così come ogni azione umana, tende ad un fine, pertanto il fine migliore compete alla scienza più importante ed “architettonica”, cioè a quella che comanda alle altre che cosa si deve fare. Questa è la scientia civilis, cioè la politica; dunque a questa compete considerare il fine migliore, ed essa usa tutte le altre scienze in vista di questo fine, che è il bene comune della città. Qui il “fine migliore”, cioè il bene supremo, viene senz’altro identificato, al seguito di Aristotele, col bene della città.
[1] Si veda L. M. Pacini, Scuola di Pensiero Forte, Volume 1, cap. 29.