Il 10 aprile del 1947 la Corte Militare Alleata, insediatasi a Trieste, condannò a morte Maria Pasquinelli che ascoltò in silenzio la sentenza, mentre dal pubblico presente si levarono grida di disapprovazione, le donne in lacrime. Il giorno successivo in città volantini tricolori e la scritta “Dal pantano d’Italia è nato un fiore: Maria Pasquinelli”. (La condanna venne commutata in quella dell’ergastolo. Nel 1964 le venne concessa la grazia, mai da lei richiesta, e visse a lungo a Bergamo, ove è morta non molti anni fa, senza rilasciare interviste, non sfruttando il clamore suscitato dalla sua vicenda). In questa settimana, nell’anniversario del 10 febbraio ’47 e dell’istituzione del Giorno del Ricordo, io stesso ho postato poche righe su FB, altri la sua fotografia e commossi e coinvolti commenti. Vi torno qui, in queste mie note settimanali.
Alcuni anni fa Stefano Zecchi ne ha tratteggiato la storia in un esile libro. Maria era nata a Firenze, trascorrendo però la adolescenza e diplomandosi come maestra a Bergamo. Allo scoppio del conflitto era partita per il fronte libico come crocerossina al seguito delle nostre truppe; il richiamo della prima linea, di un impegno forte e diretto l’avevano spinta però a travestirsi da soldato e, scoperta, rimpatriata. Nel ’42 aveva ottenuto di insegnare in Dalmazia, a Spalato. E, qui, era stata travolta dall’8 di settembre, dal disfacimento dell’esercito dall’irrompere delle bande slave dalle foibe e orrori connessi. Si adoperò a recuperare le salme, scoprendo le fosse comuni, a documentare quanto accaduto e, stabilitasi a Trieste, chiedere aiuto alle autorità della RSI, ostacolata dai tedeschi che diffidavano ormai degli italiani. Trovò ascolto dalla XMAS tanto è vero che l’intenzione ultima del Comandante Borghese fu quella di portare tutte le forze sul confine orientale. Il precipitare degli eventi fece sì, al contrario, che alle porte di Padova, la resa ai neozelandesi. (la Pasca Piredda, capo ufficio stampa della Decima, che mi fu amica cara, mi raccontò i particolari del suo incontro con la Pasquinelli e delle decisioni prese da Borghese).
Arriviamo al 10 febbraio del ’47, giorno in cui a Parigi il governo italiano fu obbligato a firmare il trattato di pace che, comunque, sarebbe divenuto vincolante con o senza la sua firma (solo Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, che parlò di una forma di libidine servile, chiesero di non farlo), “giusta” la ricompensa per il tradimento del re la sua fuga di Badoglio e della cobelligeranza… e la perdita dell’Istria di Fiume della Dalmazia di parte della Venezia Giulia. Quella mattina, a Pola, Maria Pasquinelli prese la decisione, con gesto eclatante e tragico, di richiamare l’attenzione sull’iniquità e le sofferenze e l’esodo delle genti istriano-dalmate. “Io mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre all’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo, per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio”.
Che altro aggiungere se non riconoscere come fu una fragile donna, sola, a sfidare il mondo dei vincitori e fu un’altra giovane donna, Alfa Giubelli, sola, a dare un senso di giustizia alla tragedia subita dai vinti, alla ferocia di coloro che si presentavano con la tracotanza e l’infamia del più forte.