I pesci rossi

 

I pesci rossi

Dopo cena, magari con la televisione accesa che vedo senza vedere e ascolto senza ascoltare, mi isolo dal giorno che volge a termine e mi raccolgo in una sorta di limbo ove lascio a immagini e pensieri fare da padroni senza un ordine legittimato se non dal caso o da qualche bizzarria improvvisa. Così l’altra sera mi sono tornate a mente alcune espressioni di Antonio, il protagonista de I pesci rossi, commedia del francese Jean Anouilh – buon commediografo e di discreto successo – messa in scena a Parigi nel 1970 e pubblicata l’anno successivo per l’Editore Volpe con lodevole prefazione di Fausto Gianfranceschi. E, ricordando di averne copia, sono riuscito a ritrovarla fra gli scrittori francesi a me cari, quali Céline e Drieu la Rochelle e, va da sé, Brasillach. Così ho potuto constatare che la memoria era sostanzialmente fedele, segnando un fragile punto a favore della mia inutile battaglia contro il ‘generale’ Parkinson. Me ne faccio vanto.

E forse sollecitato da echi di diritti civili sbandierati redditi pretesi e distribuiti a lode di pigrizia e incompetenza. ‘Non si può dunque lasciare in pace la gente, e che sia maldestra e infelice come è sempre stata, da sempre? E vada a tentoni, come ha sempre fatto, con più o meno fortuna, per guadagnarsi la vita, la libertà o l’amore, a modo suo? Non lo si può lasciare un po’ in pace, l’uomo, e che se la sbrogli da solo? E’ carico di assicurazioni sociali, da morirne, il vostro uomo! Non osa più nemmeno mollare un peto, se non è certo che gli sarà rimborsato! Languisce a forza di essere assicurato contro ogni cosa, e perde la sua vera forza – che era immensa! Era l’uomo uno dei più temibili animali del creato’. Vi trovo anche, a penna, una correzione al testo, ma forse, rileggendola, una giovanile pretesa.

Qualche giorno fa, nell’anniversario della fucilazione di Robert Brasillach (avvenuta il 6 febbraio ’45). Avevo tratto da Diario pubblico (Rusconi Editore, 1974) questa sua annotazione: ‘E la sola nota confortante, la sola speranza negli uomini doveva essermi data dalle poesie serene e strazianti di quell’amico sconosciuto, di quel gran fratello che avevo visto soltanto due volte e al quale dovevo la mia prima lezione – di quel piccolo fratello disarmato, solo fra gli uomini, tra quattro mura di cemento e la cui sola speranza era ormai quella di morire bene’ (pg.83). Jean Anouilh, che non gli era amico e poco ne condivideva le idee, s’era adoperato a raccogliere le firme dei più prestigiosi intellettuali da apporre in calce alla richiesta di grazia rivolta al generale De Gaulle. Rifiutata. Si racconta come, apprendendo la notizia da uno strillone di giornali dell’avvenuta esecuzione, abbia esclamato: anche noi dobbiamo stilare una propria lista di proscrizione… (sono i giorni crudeli della resa dei conti, di una ‘liberazione’ – ancor più feroce di quella avvenuta in Italia – ove lavarsi coscienza compromessi tradimenti vari si fa con il sangue di coloro rimasti fedeli al principio della collaborazione) di quelli a cui non avrebbe più stretto la mano. E rimase fedele alla promessa fatta.

Ricordavo ancora un’altra esclamazione: ‘Mi hanno dato del fascista: vocabolo moderno, comodo, che non vuol dire assolutamente nulla. A meno d’interpretarlo come – uomo importuno, incomodo e la cui presenza è ingombrante –. Ebbene, sono uno di questi!’. Noi sappiamo bene essere ‘fascisti’ ha un senso, è uno stile di vita, una visione del mondo, ma in una società prostituita al ‘politicamente corretto’ in bocca al protagonista d’una commedia assume forza dignità ed è spendibile. E poi e infine essere contro essere in cammino.

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