La nazione dei nazionalisti

   

La nazione dei nazionalisti

Una recente pubblicazione di saggi di Giuseppe Parlato – La Nazione dei nazionalisti. Liberalismo, conservatorismo, fascismo – consente di riflettere con la coscienza storica necessaria per evitare quelle tante superficialità, in un senso o nell’altro, che costellano i discorsi in merito a un concetto di difficile definizione.

Nato come fenomeno culturale alla fine dell’Ottocento, come del resto fenomeno culturale fu all’inizio la nazione italiana, il nazionalismo divenne partito politico nel 1910 per confluire infine nel fascismo nel 1923. Parlato mette bene in evidenza come il nazionalismo non sia stato un semplice prodromo del fascismo, né si sia declinato in maniera omogenea nella sua pur breve storia; il nazionalismo è stato declinato in maniera liberale come autoritaria, in modo irredentista come imperialista; mentre è possibile persino differenziarlo per aree regionali. Pur in un contesto così vario, Parlato individua dei punti comuni i quali costituiscono un’utile riflessione anche per la nostra contemporaneità. In primo luogo, la comprensione della necessità di trasformare il nazionalismo in un fenomeno di massa, allargando l’area di definizione che della nazione davano i liberali; la consapevolezza che quest’operazione poteva essere compiuta solo utilizzando i moderni strumenti di propaganda politica. Educare alla nazione le masse per affermare i temi nazionali era considerata quindi molto più di una mera azione metapolitica: era un progetto di modernizzazione delle strutture dello Stato nel quale la politica avesse il primato sull’economia e sul diritto.

Oggi, anche se in Italia preferiamo il francesismo “sovranismo”, sono sollecitazioni che provengono dalla storia del nazionalismo e del patriottismo a insegnare che il termine deve uscire dal chiuso di élites forse più coscienti, ma sterili se non utilizzano strumenti di propaganda capaci di nazionalizzare le masse, di coinvolgerle in un discorso che preveda, con l’affermazione della sovranità nazionale, un nuovo modello di Stato e persino un modello diverso di relazioni giuridiche ed economiche.

Un aspetto dell’analisi di Parlato è un ulteriore elemento di comprensione della storia d’Italia di ieri e ancora di oggi. In occasione della guerra italo-turca, i nazionalisti vinsero la battaglia delle parole introducendo la categoria del “nemico interno”, «e cioè la divisione tra “italiani” e “non-italiani”, che poi ebbe particolare fortuna nella vita politica italiana fino ai giorni nostri». Si tratta, ci sembra, della peculiarità, negativa, della comunità nazionale: mentre nel disaccordo le comunità nazionali si compattano sempre  – “giusto o sbagliato, è il mio Paese”, recita un detto anglosassone – nel nostro Paese le divisioni hanno sempre condotto alla divisione in italiani e non italiani, in umani e non umani. Ma c’è un elemento ulteriore che ci caratterizza, sempre in negativo: oggi essere non italiani è esplicitamente rivendicato con orgoglio nella narrazione globalista e diventa una dichiarazione quasi obbligatoria se si vuole essere accettati dal mondo politicamente corretto che ha imposto la dittatura del pensiero unico. Pensiero anti-italiano, ovviamente.

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