Scuola di Pensiero Forte [110]: l’evoluzione politica dello Stato [5]
Aprendosi alla concezione moderna, il concetto di Stato non ha trovato quell’univocità che lo caratterizzava nei secoli precedenti. Proprio nel corso del Settecento e dell’Ottocento, giungendo fino ad oggi, il modo di intendere lo Stato non solo nella sua forma strettamente politica, e quindi organizzativa e socialmente distribuita, ma in ispecie nella sua dimensione sacrale e metafisica, incontrò delle divisioni molto forti e decisive: da una parte lo Stato moderno, quasi sempre di tipo repubblicano o democratico, con la separazione fra potere religioso e temporale, laico e liberale, mentre dall’altra parte lo Stato monarchico o imperiale, legato alla tradizione antecedente che voleva il tratto confessionale affiancato e sacrale, a seconda delle diverse interpretazioni religiose e dottrinali.
Niente di nuovo, a dire il vero, perché anche in passato vari tentativi di sovversione della forma statale dominante avevano preso luogo, così come anche c’erano, ora, delle forme ibride e realizzate in base alla convenienza e all’opportunismo del detentore del potere di turno. La vera grande diversità che veniva configurandosi era quella di due mondi paralleli, ma non simbionti, fatti di una lunga storia politica e sociale, guerre, conquiste, culture, valori e trasformazioni antropologiche, che non potevano accettarsi perché ideologicamente fondati su due visioni del tutto diverse ed inconciliabili. Si è trattato, forse, di un vero e proprio scisma della politica, che non vogliamo presuntuosamente fissare con una data esatta, ma che senza ombra di dubbio si consumò nell’arco di più secoli.
Lo Stato moderno che stava assumendo la sua immagine con sempre maggiore chiarezza fondava la sua dottrina politica non su una rottura netta e drastica con la Tradizione del passato – come invece successe a livello sociale, tanto che storicamente si possono segnare alcuni eventi con precisione –, ma da essa prese le mosse sviluppandone alcuni concetti chiave. Il più importante fra tutti ancora oggi presente e tanto dibattuto, è quello di sovranità.
Assume al riguardo importanza il richiamo al pensiero di San Tommaso d’Aquino, l’origine e la natura dello Stato da lui concepiti, in un tentativo di conciliazione fra l’aristotelismo politico e il Cristianesimo. Nel De Regimine Principum, una delle principali opere della filosofia politica medievale, viene spiegato che «la sovranità non viene in atto che per opera umana, mentre il potere originariamente esiste soltanto nella collettività, la quale solo può investire determinate persone» e che «il potere politico è di diritto umano. Dio c’è soltanto come autore del potere come specie astratta, come rapporto potenziale, ma l’istituzione concreta del potere è puramente umana. Il rapporto di subordinazione politica preesiste potenzialmente».[1] Questa dottrina ebbe una forte influenza sulle correnti di pensiero di tutti i secoli successivi al Medioevo, tanto da diventare uno dei nodi concettuali più importanti dell’affermazione dello Stato moderno: Suarez affermava che il principe acquista il potere sovrano «per consenso della comunità che naturalmente lo possiede»[2]; Gorzio ritiene che «lo Stato rimane sempre distinto dalle persone che ne hanno la direzione o il dominio come coetus o collettività, e come soggetto comune della sovranità, pur risiedendo essa in concreto in una o più persone»[3]; Johan Altusius si sofferma sul «principio che la sovranità risiede nel popolo, fatto per questo superiore al re e sulla resistenza da opporre al tiranno»[4], ripreso poi da Bodin che parlava della sovranità come diritto proprio e perpetuo del sovrano, enumerando persino una serie di diritti sovrani riconosciuti al principe muovendo dal presupposto che i diritti di sovranità «non potessero essere dati ai sudditi», ossia al popolo, «pena la loro distruzione ed il loro annientamento».[5] L’assoluta sovranità dello Stato di fronte alle altre istituzioni con potere politico, come la Chiesa in Occidente, ce la ricorda anche Marsilio da Padova nel suo celebre Defensor Pacis, con largo anticipo rispetto a tanti pensatori moderni, rilevando che è regnum solo un «governo sotto la legge e il legislatore umano è l’intero corpo dei cittadini o la sua parte rilevante, che senza la connessione del legislatore umano decretali e decreti di pontefici non possono obbligare o costringere nessuno […] nessun governante può avere pieno potere e controllo delle azioni civili delle altre persone senza la volontà deliberata del legislatore umano»[6], lasciando intravedere la derivazione dal basso del potere politico.
[1] Cfr. Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, I, cap. 2, pars IV.
[2] Cfr. Ffrancisco Suarez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, Lugudum, 1919, III, cap. I-IV.
[3] Cfr. Ugo Gorzio, De jure belli ac pacis, Wratislaviae, 1744, I, cap. 1, pars XIV; cap. I, pars VII; cap. XIV.
[4] Cfr. J. Chevallier, Storia del pensiero politico, I, Il Mulino, Bologna, 1981.
[5] Cfr. G. Bodin, De Repubblica (1576), Francoforte, 1609, VI libri, lib. I, cap. 8 e 10.
[6] Cfr. A. Passerin d’Entrèves, Rileggendo il defensor pacis, in Saggi di storia del pensiero politico. Dal medioevo alla società contemporanea, a cura di G. M. Bravo, Franco Angeli, Milano, 1992.