Immagini rasserenanti ed ospitali

 

Immagini rasserenanti ed ospitali

Il mese di aprile ha molti rimandi nella memoria: dai versi di Eliot con cui si apre “La terra desolata”, il poemetto del ’22 che lo rese famoso e che egli dedica all’amico Ezra Pound, alle vicende tragiche ed infami che ci impongono quale celebrazione di una “liberazione”, proposta non so di quale vittoria… L’altra sera, sfogliando un libro polveroso (edito 1943-XXI, Universale Einaudi), titolo “Canti del popolo greco”, di Niccolò Tommaseo (e vale la pena ricordare come fosse nato a Sebenico), nascosto dietro una pila di libri su e di Martin Heidegger (quale sia il rapporto fra il primo e i secondi ignoro il senso), mi sono apparse le immagini sparse del viaggio in Grecia, proprio in aprile, Pasqua 1968. Viaggio tanto decantato da magistrati rapporti polizia servizi segreti inchieste di giornalisti propostisi storici e inquisitori. Avverto subito i miei affezionati ed esigenti lettori che non troveranno, in questa paginetta, alcuna e sensazionale rivelazione, non ne posseggo, non credo ve ne siano comunque…                

(D’altronde ne ho scritto in Strade d’Europa, già nell’anno 2006, e che ho riproposto in conversazioni recenti, su “kulturaeuropa”, che sono state appunto un ripercorrere viaggi incontri riflessioni di una stagione in cui la mia generazione scopriva mettersi in cammino, zaino sacco a pelo pollice levato, sul ciglio della strada. Irretiti, in parte dalla lettura della beat generation e di J. Kerouac in particolare. Anche nel libro e nel vissuto vi è, però, ben altro).

Così mi rivedo seduto sui gradini del Rettorato, capelli già lunghi e la barba caprina, a godere del sole primaverile e Cesare che mi invita ad andare “dai colonnelli” con un paio di pullman, porto di Brindisi, traghetto e Atene. Il fascino, arcaico ed evocativo, di Delfi dove, secondo il mito di Zeus e del luogo del ritrovarsi di due aquile lanciate in volo in direzione opposta, risiede il centro del mondo e la nascita della cultura. Le sette colonne del tempio di Apollo, dell’oracolo, di Socrate che trova la risposta in quel “Conosci te stesso” a fondamento del pensiero occidentale. Anni dopo sarà nelle parole di Mishima rinnovato lo stupore (ne La coppa di Apollo). “L’arte, assai più che di un oggetto oscuro o serio, è espressione di un’imperfezione”. Il cielo trasformatosi in deserto gli dei ritiratisi al fondo dei boschi o oltre impervi sentieri montani l’uomo rimasto carne ossa sangue a costruire una immagine di se medesimo tramite vuoti e illusori simulacri, cercando nel superamento vano della propria finitudine il senso di vivere e  del morire.

Sfoglio questi Canti, forse mai letti o letti distratto, questi pochi versi di un popolo guerriero e tenace sotto il giogo secolare del Turco invasore: “Questa estate e la primavera – Ci scrivono in bianca carta lettere nere – “Quanti siete, clefti, sugli alti monti, – Tutti scendete dell’Olimpo; – Inchinate tutti a Alì pascià” – Due prodi solo non si rinchinarono: – Presero i fucili e le lucenti spade; – E sui monti salgono corrono tra’ banditi”. Dovrei cercare versi d’allegria, di danza, d’amore, di una Grecia che si offre con il sole il mare il sirtaki il vino resinoso. Una Grecia che sappia spazzare via ombre grigiore viltà di questa pandemia dello spirito… Ecco.

Un richiamo rasserenante ed ospitale. La mamma di Luciano ci accoglie per pranzo, io con Emanuele bimbetto, nella casa di Artena a metà degli anni ’80. Grazie per offrirmi ancora, in ricordo improvviso, la sfida dell’esistenza contro i suoi odierni e odiosi negatori.

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