L’orrore di fondo

 

Di Lorenzo Merlo

Nonostante si sia a un passo dal baratro, avanziamo spediti col vento in poppa della scienza e della tecnologia verso i successi nascosti nell’era digitale. Nonostante qualcuno ci stia informando che potrebbe andare diversamente, non sappiamo rispondergli altro che: “Che vuoi tu, stupido essere inferiore?” E allora, ecco qualche stupida illazione.

L’ecosistema può essere definito come un corpo al quale non si possono sottrarre o aggiungere parti. Se così fosse, ecosistema e bioregione sarebbero sinonimi di equilibrio.

È una considerazione banale. Ma non per tutti.

A capitanare la crociata di un’altra verità, non naturale ma arrogante, quindi umana, è la cosiddetta scienza, quella con la quale chiunque è disposto a riempirsi la bocca per dimostrare che più in là non si può andare. Per affermare l’ultima verità. E chi non ci crede è semplicemente un idiota. È il trionfo dello scientismo, religione che vede tra i propri adepti la maggioranza degli scienziati. Lo si trova nei sussidiari delle elementari, nei genitori fieri di mostrare come girino gli elettroni, nei copy pubblicitari, in bocca ai giornalisti, nei titoli dei giornali. Lo si sente risuonare al bar tra quelli della briscola e al pub tra quelli con l’ipad. “Scientificamente dimostrato” è la loro parola d’ordine, con la quale avanzano spediti attraverso tutte le porte della vulgata, di chi crede che non sapere sia un peccato che giustamente devono pagare.

La scienza citata è quella più recente, che ha caratterizzato il pensiero dal 1600 in qua, fisica quantica e psico-neuro-endocrino-immunologia a parte. Quella detta newtoniana o meccanicistica, per sua ontologia scompositrice – o demolitrice – dell’intero, per sua missione convinta che nell’analisi risieda la conoscenza, per sua necessità costretta a classificare e nominare. Un percorso interessante che ci ha fatto presente che i muschi procreano con le spore, che il nucleo atomico è pieno di cose ancora più piccole, ecc. Una strada che vanta la convinzione di conoscere la natura, ma di fatto se ne allontana. Che ha perso per strada il principio dell’intero, dell’ecosistema, che ha creduto di poter mettere sotto i suoi vetrini qualunque cosa riuscisse ad afferrare e poi ha pure creduto che ciò che vedeva fosse veramente un paramecio o una nanoparticella, che appartenesse veramente a quella categoria e reagisse veramente a quello stimolo. Nell’entusiasmo della conoscenza non si è avveduta che le proprietà di ciò che aveva isolato non erano che sue proiezioni. Un disastro.

Ora, in tempo digitale, l’arroganza di certo scientismo non si è ridotta, anzi. Il totem che ci vede tutti genuflessi davanti ai suoi poteri si chiama tecnologia. Se prima era il denaro il vascello che avrebbe permesso di navigare in tutti i mari, adesso è l’idolatrata tecnologia, che alcuni chiamano scienza, la nostra certa salvatrice. L’epoca digitale ne ha esponenzializzato le presunte doti. La distanza dalla natura è proporzionalmente cresciuta.

Ce lo dicono molte evidenze. Crediamo che conoscenza voglia dire erudizione; non sappiamo muoverci in natura se non affardellati di strumenti a batteria, non possiamo andare ad un appuntamento senza navigatore. Ma sono piccoli campioni della perdizione dell’uomo.

Meno piccoli ma più inosservati – se non spettacolarmente – nel loro significato ultimo ed esiziale, sono i campioni provenienti dal mondo animale. Folti gruppi di cetacei che spiaggiano, cioè che muoiono soffocati o ustionati, che, aiutati da anime buone, rifiutano il mare o non possono più riconoscerlo e testardamente dirigono a terra. Basterebbe questo e la sua ripetizione che in questi ultimi anni tutti osserviamo, con sdegno, naturalmente, con gli scientisti in prima fila – come credono gli spetti di diritto divino – a domandarsi come mai?

Testuggini capaci di ritornare al luogo di nascita dopo anni e migliaia di miglia di distanza, farfalle che interrompono la migrazione, api, lucciole, cervi volanti che spariscono, addensamenti di meduse, balene e delfini arenati, e con loro una quantità di altri animali, tutti i migratori di terra, aria e di mare, mostrano con frequenza crescente cosa significa vivere entro una biosfera i cui naturali campi geomagnetici, loro sola bussola, sono corrotti da deviazioni di origine umana, anzi, meglio dire tecnologica e scientifica, affinché i devoti del 5G non dimentichino il costo vero dei loro giga-per-secondo.

La rete di frequenze digitali, di trasmissioni satellitari, di localizzazioni micrometriche, di tutto lo sconosciuto militare, quello necessario a gestire le condimeteo, le rotte delle armi e dei droni, le barriere di disturbo verso il nemico, come possono essere innocue?

Come possono esserlo i rumori e i disturbi che modificano l’habitat, la pesca predatoria, le risonanze negative di tutte le esplosioni nucleari nell’inerte e insofferente Terra? Come possono non generare anomalie al campo magnetico terrestre gli elettrodotti e gli oleodotti? L’inquinamento riversato in aria, terra e acqua può essere inerte? Innocuo?

Non è un caso che tra le cause che si vedono riferite dalla stampa ci sia, insieme alle più irrilevanti, il cambiamento climatico, e non compaia invece mai qualcosa di relativo a quanto accennato qui, nonostante la banalità di certe ipotesi. Non lo è in quanto il cambiamento climatico è, per buona parte del mondo scientifico, quello forse più colluso con i potentati economici e militari, un fatto del tutto naturale, per nulla relativo alle scelte dell’uomo. Come potrebbero affermare diversamente visto il loro datore di lavoro?

Il fenomeno di animali che perdono la via è noto da secoli. Vittime forse di occasionali naturali deviazioni magnetiche. Ma tende a trattarsi di singole unità, non di gruppi e non frequentemente. Certo sono illazioni utili a sostenere la tesi secondo cui abbiamo commesso un errore – ma meglio dire orrore – di fondo, quello di aver prediletto il sapere alla conoscenza, il prodotto dell’intelletto, al sapere estetico. Recuperare il conoscere attraverso il sentire, la sapienza attraverso la bellezza, permette di uscire dalle scatolette delle classificazioni e toccare l’infinito che è in noi.

Cosa fare?

Niente, a parte prendere coscienza che non siamo fuori dall’ecosistema, che ogni azione che lo disturba implica denaro per qualcuno e pena per il resto del pianeta. Che siamo terra sebbene corrotti dalle idee di superiorità nei suoi confronti.

In una parola, che la strada sulla quale siamo in trionfale marcia preceduti da fanfare e adornata da gran pavesi non è quella umana.

E anche se le generazioni che verranno o coloro che sopravvivranno non si assumeranno la responsabilità di ciò che è stato, se non saranno in grado di non colpevolizzare i loro padri, l’esperienza del disastro andrà perduta e a loro volta con la fanfara in testa e il gran pavese ai lati troveranno una nuova via verso effimeri successi. La storia è maestra solo nell’assunzione di responsabilità di quanto non abbiamo commesso. Solo identificandosi con quanto commesso da altri giochiamo il nostro jolly evolutivo. Diversamente la sua – ma nostra stessa – mannaia, al prossimo giro del tempo non farà sconti.

Ma fin da questa tornata, basta! Basta attendere qualche scientificamente provato. Non servono gli scienziati per salvare la terra, né maestri di scuola, insegnamenti universitari o apprendimenti da guru.

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