A proposito della “RECESSIONE” in Italia

 

A proposito della “RECESSIONE” in Italia

 

Da giorni i media italiani, stampa e televisione, insistono sul fatto che l’Italia sarebbe in “recessione tecnica” perché l’indice di crescita del prodotto interno lordo dell’ultimo semestre sarebbe diminuito dello 0,2%.

Premesso che questa modalità – derivante dalla globalizzazione e dal primato dell’economia sui valori sociali e civili – di valutare uno Stato e un popolo esclusivamente in base ad indici economici, è una distorsione della situazione reale di una Nazione  che non è determinata solo dall’economia, è comunque opportuna una riflessione su queste affermazioni.

Innanzitutto, cosa vuol dire “recessione tecnica”? E’ solo un modo di comunicare tra economisti: se un calo prosegue per due trimestri, allora si chiama “tecnica”… E’ quindi solo un modo di dire.

Potremmo a questo punto osservare che nessuno parlava di recessione, tecnica o meno che fosse, quando nell’anno 2012 (governo “europeista” di Monti) il calo era del 2,8% e nel 2013 (governo anch’esso di un”europeista”, Letta) dell’1,7%: no, allora si parlava solo di “austerità” per non spaventare il popolo.

Vediamo adesso prima i numeri e poi le possibili cause.

Precisiamo intanto che un calo dello 0,2% in un trimestre non significa automaticamente che tale diminuzione permanga nel periodo successivo, tant’è che il 2 febbraio scorso il quotidiano “Il Messaggero”, riepilogando le previsioni dei vari organismi, indicava nello 0,6% la crescita dell’Italia nel 2019 come valutata dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca d’Italia. Quindi, crescita e non diminuzione; quindi, non più recessione.

Ma poi andiamo a vedere i numeri. Il prodotto interno lordo italiano nel 2018 è stato valutato a 2.190 miliardi di euro: quindi, un calo dello 0,2% corrisponderebbe a 4,38 miliardi di euro prodotti in meno, ossia 73 euro all’anno a persona. E’ una cifra del tutto inavvertita, e se si chiama “recessione” questa, non sappiamo come si potrebbe allora definire una vera crisi economica, come quelle vissute dopo il 1929 e dopo la guerra.

Per quanto riguarda le cause, esse sono tante e si sommano. Vi è innanzitutto la disoccupazione, causata dall’innovazione tecnologica, dalla scarsa preparazione professionale, dal deserto produttivo in alcune regioni; vi è la delocalizzazione di imprese fuori d’Italia, che esse sì tolgono incrementi produttivi visibili; vi è la libertà assoluta di commercio che fa importare a bassissimo costo prodotti da Paesi come la Cina che mette in crisi le aziende nazionali; vi sono i blocchi burocratici e inquisitori come la legge sugli appalti e i controlli dell’Autorità anticorruzione che impediscono lo svolgimento di opere pubbliche grandi e piccole; vi è anche il lavoro non registrato, “in nero”, che non viene rilevato statisticamente. E potremmo continuare a lungo con altre esemplificazioni.

Il governo in carica ritiene che la tendenza si possa invertire con le sue politiche di bilancio e in particolare con i pensionamenti, che creano il ricambio generazionale nei posti di lavoro, e il reddito di cittadinanza, teoricamente mirato per avviare al lavoro. Certo, servono anche investimenti produttivi soprattutto nei settori trainanti per il futuro.

Non sappiamo se ciò avverrà: però certamente non si può alimentare un terrorismo psicologico basato sulla parola “recessione”, tanto più che essa è comune ai maggiori Paesi membri dell’Unione Europea. Quindi, se una critica alla politica economica dovesse farsi, essa deve rivolgersi in primis alla Commissione Europea responsabile delle sue “direttive” a cominciare da quelle penalizzanti per il sistema bancario e dal rigido controllo sulla circolazione monetaria.

 

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