“C’era Salvini con Berlusconi, o Bella Ciao Bella Ciao Bella ciao ciao ciao… Con i fasci della Meloni che vorrebbero ritornar…. Ma noi faremo la Resistenza .. Noi faremo la Resistenza come fecero i partigian… Partigiano portali via come il 25 April”, l’ottuagenario Francesco Guccini, modenese, sospeso tra la via Emilia e il West, ha colto il 25 aprile per condire al peperoncino rosso Bella ciao canto pop d’anonimo divenuto inno partigiano nel dopoguerra. Spostatasi la Resistenza dalle montagne ai colombari delle nostre case, alle 15.00 in ricordo della Liberazione e su chiamata dell’ANPI, dai balconi e dalle finestre il via al flash mob bella ciao magari con testo alla mano e possibilmente un pifferaio.
In un video più casalingo il cantautore della Locomotiva compariva iconico col bel maglione rosso, il faccione bevuto dal tempo, canticchiando, a mo’ di filastrocca, la sua rivisitazione testuale della melodia nominando i nemici invasori del presente, la trinità da portar via (il dove non lo dice, il furbo, ma s’ipotizza un piazzale) imitando la Resistenza partigiana, chissà forse s’appellava al branco delle sardine neopartigiane.
Se dalla bocca usata come fionda si scagliano pietre, inevitabile è il chicchirichì dei media in carta o a figurine sugli schermi, visibilità assicurata in un mesto tramonto, commenti di plauso o sguscianti perché l’odio ha i suoi untori e cacasotto democristiani, in fondo resta attuale quel ammazzare un fascista non è reato anni ’70 che ha radici proprio nella Resistenza, assassinare Giovanni Gentile quel 15 aprile del ’44, non fu omicidio, sostengono i compagni, ma un atto di guerra, esecuzione di una ”sentenza di morte” popolare come argomentava Palmiro Togliatti su Rinascita ricalcando la frase degli esecutori.
Così riavvolgendo il nastro della cronaca recentissima scorrono immagini e sentenze d’amore francescano di prelati a pugno duro e chiuso contro Salvini e Meloni, cloni a parer loro di Hitler e Mussolini, interdetti a varcare la soglia delle chiese ovili d’immigrati, una scomunica lanciata dal soglio pontificio contro chi li plaude e vota però senza carta, inchiostro e bolla.
A settembre il CLN tornava in sella, orgasmo dei progressisti per la liberazione dalla Lega, in marcia compagni per le riforme partorite dagli intellettuali organici all’accademia rossa e se i sovranisti conquistano caselle regionali e comunali, la parola d’ordine è resistenza anzi resilienza, sostantivo più à la page visti i tempi.
Mentre i neopartigiani si trincerano dietro i sacchi, aggrappandosi all’Emilia di Guccini, arrivava imprevisto un nuovo invasore dalla comunista Cina, non calzava il Fritz sulla testa, non portava anfibi, mostrine, né imbracciava il K98, era una pallina vudu invisibile, infingarda, in poche ore trasformava l’uomo da Gulliver interconnesso a nano intubato e forse a un pugnetto di cenere senza compianti, polvere anonima priva di lacrime ed amanti.
Tempo di emergenza, compagni, perciò tempo di unità invocata dai radi scranni del Parlamento, su invito del tessitore al Quirinale, così dal Nazareno partono gli appelli al senso di responsabilità, alla coesione, al confronto costruttivo, spegnendo i moccoli delle polemiche con l’unico obiettivo che è il bene del Paese, anzi della Patria comune, riscoperta sempre da finestre e balconi con l’inno di Mameli sventolando il tricolore vocando la frase d’ordinanza: andrà tutto bene (sic!). Persino un quotidiano meneghino d’ antica fondazione offre come gadget del giornale la bandiera nazionale quasi fosse un amuleto per scacciare il criminale invasore o meglio i gotici pipistrelli.
Tutta una farsa senza risate seguendo il canovaccio del ’43-’45, perché c’è un vallo profondo, una foiba mai colmata, uno strappo sulla veste della bella Italia mai ricucito, una ferita da pugnale nel cuore che non conosce filo del chirurgo, è il perdurare pluridecennale del clima da guerra civile mai diradato anzi invocato senza soluzione di continuità, è l’aroma aspro della cultura dell’odio il refrain alla base della neo Bella ciao di Guccini, è un fatto non solo un sentimento e ne prendiamo atto.
Pochi mesi prima d’essere assassinato G. Gentile così chiudeva una sua lettera indirizzata ad Ermanno Amicucci, direttore del Corriere della sera (a quel tempo fascista): “[…] E perciò io credo opportuno un appello alla smobilitazione degli animi, alla concordia possibile, per carità di Patria, per la salvezza di tutti”.
Alcuni storici ipotizzano che fu ucciso per questa invocazione alla riconciliazione rimasta voce nel deserto, autentica rivoluzione in una Patria da sempre dilaniata, un grido senza eco di ritorno e allora bella Italia…ciao! e a culo tutto il resto.