Negli scorsi giorni è stato annunziato il varo per la campagna referendaria per la istituzione della “macroregione autonoma del Sud, sulla falsariga di quanto già accaduto in Lombardia e in Veneto”. Era facile, banale e scontato in questi mesi e durante la propaganda di quei mesi, che si potesse iniziare il cosiddetto “domino” e nelle regioni contigue a statuto ordinario e nelle immancabili aree del Sud con l’attenzione e con l’impegno di esponenti del gruppone berlusconiano, completamente all’oscuro di quanto stava “bollendo in pentola”. A detta di alcuni promotori, pronti al piagnisteo immotivato ed immemori delle tante occasioni elettorali avute e non sfruttate con consensi plebiscitari conferiti ai ras locali, “il risultato politico delle elezioni del 4 marzo è espressione della rabbia del Mezzogiorno che vuole contare di più e vuole avere la giusta attenzione ai suoi interessi legittimi”. Pochi purtroppo nella destra o meglio in quel poco che si può ancora destra, preoccupati di perdere l’aggancio con la motrice leghista manifestano la fondata perplessità dell’avvio di un processo disgregatore del sistema unitario, così come è avvenuto con le norme sullo scioglimento del matrimonio, divenute da corrette a brevi e farsesche.
Su questo argomento è capitato di leggere critiche ed osservazioni anche da parte di giornalisti, normalmente antitetici 999.000 volte su un 1 milione con le posizioni della destra coerente. Aldo Cazzullo rammenta, ad esempio, “l’intera generazione di borghesi meridionali – giovani ufficiali, medici, avvocati e religiosi – appartenenti a una classe in ascesa ma mortificata dai Borboni, sia entrata in contatto con le idee di Mazzini e di quanti parlavano di Italia unita”. La “sudtirolese” Lilli Gruber, che vive, lavora e mangia in Italia, riconosce lo “sbaglio” commesso nel considerare lo Stato centrale colpevole di tutti i mali”, spiegando che “dai primi anni Ottanta assistiamo ad un crescente indebolimento delle nostre istituzioni statali da parte di potenti multinazionali […] che vogliono neutralizzare il ruolo del settore pubblico come fondamentale regolatore economico delle nostre società”.
È mancata poi una valutazione seria e serena dei risultati e del significato del referendum del 22 ottobre 2017 svoltosi nell’antico Lombardo – Veneto: se il numero dei favorevoli è stato plebiscitariamente favorevole alle tesi preseparatiste, non può onestamente ignorato che nella regione di Salvini, Maroni e Berlusconi a votare è stato appena il 38,25% degli aventi diritto e nella regione confinante, nei decenni postunitari fino al fascismo, patria di milioni di emigrati, il 57,3%. Rimane sintomatico ed eloquente del tratto campanilistico che il ras della Lega si sia compiaciuto per l’apprezzamento espresso nel Friuli alla candidatura alla presidenza alla Regione di un triestino.