Il progetto di legge c.d. “Zan-Scalfarotto”: quando si nega il diritto naturale

 

Il progetto di legge c.d. “Zan-Scalfarotto”: quando si nega il diritto naturale

Nell’opera “Trattato teologico-politico” del filosofo olandese Baruch Spinoza (16 32-1677) si afferma che “il diritto naturale di ciascun uomo é determinato e definito non da una saggia razionalitá, bensí dalla propria cupidigia e dalle proprie possibilitá”. Ora, Spinoza dimostra di non saper sollevare il diritto alle altezze del razionale e dell’etic o, confondendo la necessitá dell’accadere fisico con la necessitá dell’accadere morale. Lo sostiene anche il neopositivismo secondo il quale é impossibile dedurre dalla natura un diritto, dal momento che non esiste alcun ponte per passare dal fatto d’ essere (sein in lingua tedesca) al dover essere (il sollen). La natura indica, non comanda, ed anche con mille indicativi non si fa un imperativo lo. Non esiste, allora, alcuna idea di giustizia poiché questa dipende, come sostiene Hans Kelsen, il “padre” della scuola normativistica, dall’ideologia prevalentemente proposta nelle

democrazie “procedurali” o imposta dalla societá. Pertanto, se in un dato momento storico il legislatore avverte di dover punire penalmente (attraverso, ad esempio, la modifica dell’art. 604 bis del vigente Codice penale italiano) l’istigazione (lett. a)) a commettere atti discriminatori fondati anche sull’identitá di genere (concetto vago e liquido il quale non puó certo essere definito e tipizzato nell’art. 1 del progetto di legge “Zan-Scalfarotto”), é legittimato a farlo in nome di quella eguaglianza formale, di cui all’art. 3, comma 1, della Costituzione che porta ad un livellamento di ogni possibile differenza, cancellando le peculiaritá proprie di ogni ente. La legge positiva, in questo modo, fondandosi solo sulla volontá di chi detiene il potere, arriva a rendere normativo ogni fatto, ogni impulso, ogni istinto. Si tratta, peró, di un aspetto riduttivo e per certi versi dogmatico. La natura non é l’insieme dei fatti collegati da un rapporto di causalutá. Ne avremmo una visione meccanicistica e, perció stesso, riduttiva. Kelsen, dunque, non tiene conto che la deduzione del dover essere (della norma di comportamento che acquista giuridicitá) dall’essere non avviene sul piano dell’esistenza, ma su quello dell’essenza. La legge di Hume, che esclude ogni rapporto di causalitá, presuppone un dato indimostrabile, cioé che non esiste una concezione ontologica del reale. In questo caso si cadrebbe in contraddizione perché negheremmo il fine e realtá teleologicamente orientate.

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