Immigrazione. La magistratura fa politica?

 

Immigrazione. La magistratura fa politica?

Si ha un bel voler credere nelle istituzioni. Con tutta la buona volontà ogni giorno arrivano delusioni. L’intervento della magistratura sull’immigrazione è solo l’ultimo di una serie di fatti che tolgono speranza. L’indagine contro il ministro Salvini è un caso, ma non il solo. Con tutto il rispetto per gli appartenenti all’ordine giudiziario, si resta perplessi dinanzi alla partecipazione di magistrati a manifestazioni di parte- nel caso dell’accusatore agrigentino di Salvini si tratta del PD- seguita da iniziative a carico di avversari di quel partito. Alle reazioni piccate del Capitano leghista sono seguite durissime reprimende a difesa “del prestigio e dell’indipendenza della magistratura.” Sul prestigio non ci pronunciamo, ma sull’indipendenza abbiamo diritto a fondate perplessità, a partire dalla divisione della categoria in correnti politicamente orientate e dal clima di porte girevoli per cui membri della categoria assumono spesso incarichi politici, tornando poi ai loro uffici precedenti.

Nei rimproveri a Salvini si è distinto il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. Per Giovanni Legnini era obiettivamente difficile tacere, si trattava quasi di un dovere d’ufficio. Tuttavia, abbiamo il diritto, lontani dalla volontà di offendere la funzione e chi la esercita, a qualche dubbio. L’avvocato abruzzese è un ex sottosegretario del governo Letta e poi dell’esecutivo Renzi. Non riveliamo nulla se gli attribuiamo la qualifica di oppositore del governo in carica. L’ indipendenza politica del ruolo peraltro non può sussistere, per la natura altamente fiduciaria sostitutiva del Capo dello Stato, presidente del CSM.

La sua più recente esternazione, però, colpisce per i tempi e per i modi. Afferma il vice presidente Legnini che la politica governativa sull’immigrazione è vincolata all’articolo 10 della Costituzione, che prevede il diritto d’asilo. Senza atteggiarci a giuristi, ci sfugge il nesso tra immigrazione e diritto d’asilo.  Le parole di Legnini paiono una sorta di altolà politico al più alto livello rispetto alla gestione del fenomeno degli sbarchi di massa di cittadini africani, nonché un ulteriore avallo alla prassi di spacciare per profughi richiedenti asilo persone che sono ad ogni effetto immigrati economici. 

Il diritto d’asilo è una garanzia che la costituzione pose a favore di veri perseguitati politici, non certo un diritto generale che ogni straniero può opporre al momento di entrare, con le modalità che conosciamo, nel territorio nazionale. L’articolo 10, fatte proprie le norme internazionali in materia di condizione dello straniero, riconosce il diritto d’asilo ponendo due condizioni, una soggettiva e l’altra relativa al quadro giuridico nazionale. Il richiedente deve essere qualcuno cui “sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana”, criterio che si presta ad abusi e discrezionalità che l’intervento di Legnini non contribuisce ad allontanare. La carta vincola l’asilo “alle condizioni stabilite dalla legge”. Dunque, non sussiste alcun diritto generale a ottenere asilo né la materia è sottratta al legislatore e al potere esecutivo, come farebbe credere l’intervento di Legnini.

La magistratura è soggetta esclusivamente alla legge, recita l’abc istituzionale. La giusta indipendenza dell’ordine giudiziario non può mai sfociare in sospetti di irresponsabilità estranei allo Stato di diritto. Nulla del genere riguarda Legnini, che magistrato non è, ma le sue convinzioni in materia di immigrazione e diritto d’asilo non possono diventare un muro contro politiche governative che ha diritto di avversare, ma non di impedire brandendo con allusioni l’arma dell’incostituzionalità.  

Forse aveva ragione Bertolt Brecht chiamando sfortunato il popolo che ha bisogno di eroi. Solo degli eroi o degli incoscienti possono sfidare l’onnipotenza di strati profondi del potere reale italiano. Ci lascino almeno il diritto, sancito dall’articolo 21 della (loro?) costituzione, a manifestare liberamente il nostro pensiero, ovvero a sentirci in dissenso rispetto alle varie caste che dominano sopra le nostre teste. Questo ci resta, poiché cambiare le cose è impossibile o proibito.      

                                              

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