Le basse paghe dei lavoratori italiani

 

Le basse paghe dei lavoratori italiani

Tra i vari effetti indiretti che l’introduzione del cosiddetto “reddito di cittadinanza” ha avuto sulla pubblicistica nazionale vi è quello – oltre all’evidenza fallimentare della funzione istituzionale dei “Centri per l’Impiego” affidati alla gestione delle Regioni – delle basse retribuzioni dei lavoratori italiani. Infatti la Confindustria (e gli organi di stampa che sono in sintonia con essa) ha fatto presente con preoccupazione il fatto che l’importo di 780 euro mensili, previsto dal reddito di cittadinanza, risulterebbe pari o superiore a quello di molti milioni di lavoratori italiani. Ciò ad essa desta preoccupazione perché potrebbe provocare richieste d’innalzamento delle retribuzioni, cosa che evidentemente non risulta gradita alle imprese.

Il fatto è comunque vero, ma finora era stato tenuto nascosto (a cominciare dalla “triplice sindacale”, che in questo caso è stata colta di contropiede e non sa che dire):  adesso però la provocazione del reddito di cittadinanza ne ha svelato le dimensioni. Ed è proprio l’INPS a fornire i dati generali: nell’industrializzato Norditalia il 21% dei lavoratori dipendenti privati percepisce meno di 780 euro al mese, percentuale che si eleva al 27% nel Centro (dove predominano i servizi) e addirittura al 37,50% al Sud, dove le condizioni di lavoro sono basate solo sulla bassa retribuzione.

Quali sono le cause di questa situazione? Sono molteplici, e si sommano. Le esponiamo brevemente:

  1. l’introduzione dell’Euro ha comportato com’è noto un rialzo dei prezzi al consumo, arrotondati e spesso raddoppiati con il cambio di fatto 1 Euro = 2.000 lire. Però lo stesso non è avvenuto con le retribuzioni, il cui cambio era calcolato esattamente con il cambio dell’Euro;
  2. questo problema non è stato solo italiano perché una statistica della “CES” (Confederazione europea dei sindacati) rivela come nel periodo 2010-2017 le retribuzioni siano calate in tutti i Paesi europei e del 4,3% in Italia;
  3. in effetti, nei rinnovi contrattuali gli incrementi retributivi – una volta consueti – sono stati bloccati con il pretesto che il tasso d’inflazione registrato dall’ISTAT è pressoché fermo. Però non rimasti fermi i prezzi al consumo, a cominciare dalle tariffe dei servizi pubblici, che aumentano in modo ben più elevato;
  4. c’è anche un’altra causa “tecnica” per le basse retribuzioni derivante dall’uso massiccio dei contratti a termine, a suo tempo liberalizzati dall’Unione Europea modificando le norme italiane in merito preesistenti (fasciste) e poi ulteriormente estesi dal governo Renzi. Poiché i lavoratori a termine restano in servizio poco tempo, e spesso sono inquadrati a livelli inferiori rispetto alle mansioni effettivamente svolte, non usufruiscono né degli scatti di anzianità né del corretto inquadramento contrattuale né delle indennità speciali a carico dei lavoratori in servizio a tempo indeterminato (premi di produttività, indennità di bilancio, ecc.): quindi, in conclusione, sono pagati di meno. E questo spiega la tenacia con cui le associazioni imprenditoriali li difendano e li vogliono estendere con il pretesto della “flessibilità”;
  5. va anche tenuto presente il fatto che nell’ultimo ventennio si è diffuso il cosiddetto “welfare aziendale” per cui i lavoratori accettano il blocco delle retribuzioni in cambio di adesione ad assicurazioni collettive sulla salute, viste le problematiche del servizio sanitario nazionale, e a fondi di previdenza complementare per integrare le future pensioni prevedibilmente più basse. Tutto ciò ha un costo per l’azienda – tuttavia inferiore ad un aumento generalizzato delle retribuzioni – la quale quindi non intende aggiungerne altri per gli aumenti retributivi;
  6. queste situazioni di basse retribuzioni fanno sì che anche i contributi previdenziali versati all’INPS siano minori. Il che contribuisce a creare problemi di equilibrio tecnico-finanziario all’Ente ponendo a rischio l’erogazione delle pensioni, con l’ulteriore conseguenza che ciò spinge all’attuazione di politiche di riduzione dei trattamenti pensionistici sia in termini di età pensionabile che calcolo (la riforma Fornero ne è stata un esempio).

 

Da quanto sopra esposto appare evidente come la politica delle basse retribuzioni, che tanto piace alla Confindustria e ai suoi sostenitori, abbia delle conseguenze negative non solo per i lavoratori costretti ad equilibrismi per mantenere sé stessi e le proprie famiglie, ma anche per la riduzione dei consumi e degli acquisti di beni durevoli (cosa che intacca però anche i prodotti delle aziende confindustriali) e del bilancio dello Stato costretto a dare maggiori finanziamenti all’INPS. Insomma, il “deficit-spending” teorizzato da Keynes per lo sviluppo economico vale anche per le retribuzioni!

 

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