Omicidio Vannini: il segno triste dei nostri tempi
Marco Vannini era un ragazzo di 21 anni, morto – meglio: ucciso – nel maggio 2015, dopo un colpo di pistola esploso all’interno dell’abitazione della famiglia della fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli. Le circostanze che hanno portato alla morte di Marco non sono mai state chiarite davvero, nemmeno in due gradi di giudizio, perché la famiglia Ciontoli si è chiusa a riccio, attorno alla tesi dell’incidente, della cui responsabilità si è addossato il padre di Martina, Antonio, uomo dello Stato, visto che fa parte della Marina e dei Servizi segreti.
Il caso è stato oggetto di un’infinità di ricostruzioni, sia in tv che sui giornali, e quasi tutti gli osservatori sono concordi nel dire che le cose non possono essersi svolte come dichiarato dai Ciontoli, ma questo conta poco. Quel che resta sono le due sentenze, di primo e secondo grado, che hanno visto prima una condanna a 14 anni per il principale imputato, Antonio Ciontoli, e, in secondo grado, una riduzione della pena a 5 anni, perché l’omicidio volontario è stato derubricato a omicidio colposo. Tutti gli altri componenti della famiglia Ciontoli e la fidanzata di Federico Ciontoli, presente la sera dell’omicidio, sono stati condannati a tre anni.
Proprio queste pene “lievi” – anche a fronte del fatto che, come emerso nel dibattimento, Antonio Ciontoli e i suoi familiari ritardarono la chiamata dei soccorsi, facendo aggravare le condizioni di Marco Vannini – hanno scatenato la rabbia dei genitori della vittima, che adesso chiedono giustizia vera. E ai loro appelli hanno risposto un po’ tutti, a partire dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini: “La vita di un ragazzo di vent’anni, ucciso in maniera vigliacca, vale solo cinque anni di carcere? E gli assassini chiedono anche uno sconto in Cassazione…vergogna, questa non è giustizia”.
Ecco, questa è la triste storia dell’omicidio Vannini. Alla quale si aggiunge una vicenda, a nostro giudizio, ancora più triste: la presa di posizione, a dir poco imprudente, della conduttrice della storica trasmissione di RaiTre “Un giorno in Pretura”. Roberta Petrelluzzi, infatti, ancor prima della puntata che si è occupata del caso, ha scritto un “post”, nel quale esprimeva vicinanza a Martina Ciontoli (la fidanzata che, malgrado Marco urlasse e chiedesse aiuto, si è ben guardata dal chiamare l’ambulanza): “Ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico, che, non si capisce perché, vorrebbe la vostra morte civile. È un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l’odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta (perché tragedia è) alle sue reali dimensioni”.
Insomma, finora tutti si sarebbero accaniti contro la famiglia Ciontoli, che ha la “sola” colpa di aver ritardato la chiamata dei soccorsi, dopo che qualcuno, all’interno della loro abitazione, aveva sparato a Marco Vannini. E furono raccontate bugie sia agli operatori del 118 che a quelli dell’ambulanza, visto che nessuno, inizialmente, parlò dello sparo, ma del foro causato da un pettine e di un conseguente attacco di panico del ragazzo. Ecco, la conduttrice di un programma della tv pubblica, pagata, quindi, con i nostri soldi, pensa bene di esprimere vicinanza a questa famiglia e non alla mamma del ragazzo ucciso.
Questo, sì, signora Petrelluzzi, è il segno dei tempi tristi che viviamo, in cui, pur di ergersi a protagonisti e di ottenere un po’ di attenzione mediatica, si assumono posizioni assurde e contrarie al buonsenso. E, in definitiva, vergognose, soprattutto se espresse da poltrone retribuite da tutti i cittadini italiani, che, sulla vicenda, hanno detto, a chiare lettere, di stare esattamente dalla parte opposta, ossia al fianco della mamma di Marco Vannini.