Il miagolio della macchina fotografica genera tre istantanee. Il Toninelli che piomba nelle case degli italiani, massacrati dalla quarantena, a bordo di un monopattino elettrico, e li esorta a gridare tutti insieme ‘alleluja alleluja’.
Secondo scatto: la Fedeli, ex ministro della Pubblica Istruzione, licenza media, che fa scivolare l’Afghanistan nell’Oceano Indiano, aumentando il rimpianto dei Russi che proprio lì volevano arrivare, nel ’79, quando ancora c’erano solo desolazione e montagna, e il mare esisteva unicamente per i patiti dell’oppio.
Terzo scatto: un altro ministro della P.I., l’Azzolina, povera figlia, colta nell’atto di cavalcare un trabiccolo munito di rotelle (quasi che l’esserne privi – di rotelle – per lei e per l’altro, Toninelli, significa vederne dappertutto, come succede agli ossessi), ma l’inquadratura si stringe subito dopo su di una grande bocca rossa, smodatamente rossa, che prorompe dal nulla, un po’ come i baffi di Sadat, un po’ come certi dettagli scorporati dalle opere di Botero.
Scatti, frammenti in ordine sparso di un lungometraggio che funziona come una sostanza emetica per chi non è forte di stomaco. Individui che abitano dentro se stessi, che soffrono di una strana forma di autismo. Gente totalmente estranea alla sinfonia delle vicissitudini e degli affanni che risuona ogni giorno e ogni ora nel nostro piccolo mondo, di cittadini trasformati poco a poco in sudditi, a riprova di quanto siano perniciose certe consuetudini descritte nell’apologo della ‘rana bollita’ o in quello della ‘finestra di Overton’.
Una monarchia è assoluta quando non ha sopra di sé altro che Dio. Il figlio subentra al padre per diritto divino, anche se è un deficiente. Assoluto, quindi, nel senso di ‘ab – solutus’, di sciolto, di ‘realtà la cui esistenza non dipende da nessun’altra, ma sussiste in sé e per sé’. Un ministro della Pubblica Istruzione che dovrebbe tornare sui banchi di scuola piuttosto che pretendere di governarla, è depositario di un potere assoluto, perché è stato sottratto alle condizioni o, per meglio dire, alle ‘condizionalità che vengono poste per tacita convenzione a tutte le persone che vogliono ambire a tal posto, la prima delle quali è quella di disporre di una cultura superiore: nel peggiore dei casi, di saper distinguere una preposizione articolata da un cane che scappa.
Idem con patate per quanto riguarda un ministro degli Esteri: che deve conoscere la Geografia e la Storia. Ragion per cui anche Di Maio, povero figlio, è a sua insaputa detentore di un potere assoluto. La facile ricorrenza di questa fattispecie – del tutto inedita fino a qualche decennio fa, per una serie di ragioni che qui sarebbe impossibile enumerare – introduce, tuttavia, il sospetto che il ‘potere assoluto’ sia, per molti versi, parente stretto dell”assenza di potere’, giacché se si può essere ministro degli Esteri o della Pubblica Istruzione (per citare solo i casi più appariscenti) senza averne i titoli, ciò significa che il Paese continuerebbe a vivere, forse meglio di adesso, soltanto con coloro che, a centinaia, si alzano ogni mattina per andare a lavorare alla Farnesina o, a centinaia di migliaia, per riprendere le lezioni del giorno prima.
Il Paese andrebbe avanti, per forza d’inerzia, con tutto il potere – vero, ma non assoluto – che si concentra nelle mani del fornaio che impasta il pane o dell’autotrasportatore che taglia in lungo e in largo la penisola rifornendola di benzina. Al netto della provocazione, è altresì evidente come l”assenza di potere’, che si riscontra a queste latitudini, altro non sia che assenza di prospettiva, sciopero delle idee, vacuum siderale, all’interno del quale gli Italiani continuano – con tutte le ipoteche innescate dal Covid 19 – ad annaspare come l’esploratore che ha perso il contatto con l’astronave in ‘2001, Odissea nello spazio’.
Dal punto di vista di chi vuole cambiare le cose, la rarefazione del potere potrebbe, in teoria, costituire un vantaggio, se non fosse per il fatto che essa non si è determinata per caso, ma é tributaria di forze esterne al Paese il cui unico scopo è stato, e continua ad essere, quello di ridurre l’Italia a banco di prova di un disegno criminale incardinato su due obiettivi: la distruzione dello Stato, che viene risucchiato negli ingranaggi rotanti dell’Unione Europea, e quella della Nazione, carne fresca, che viene data in pasto alle orde provenienti dalle sentine del pianeta. Atteso che il potere esercitato dagli incapaci non è un potere, e che esso è altrove, in luoghi che all’atto restano inaccessibili, debbono essere, appunto, questi incapaci il target, il bersaglio, di chi vuole cambiare le cose e girare pagina.
Se il fine – se non l’ultimo, sicuramente il penultimo – è quello di togliere i butattini, che qui abbondano, dalla disponibilità dei burattinai, è necessario che si fissi bene, nella nostra mente, un principio: quello secondo cui se si usano sempre gli stessi strumenti, fra l’altro senza averne troppa dimestichezza – le schede, le urne, vota Antonio, i cerchi e le clavette nel circo Barnum istituzionale – verrà fuori, inderogabilmente e ineluttabilmente, sempre la stessa musica. La loro.