Stragi: il fattore “elle”

 

Stragi: il fattore “elle”

L’aereo KM 153, dell’Aviazione civile maltese, vola ad una manciata di minuti di distanza dal DC 9 dell’Itavia precipitato nel mare di Ustica, il 27 giugno del 1980. Il 18 luglio tra gli stapiombi della Sila viene rinvenuta la carcassa di un Mig libico, con dentro i resti del pilota. Morto da poco, secondo gli esperti scritturati dal Governo: da almeno una ventina di giorni, a detta dei periti neutrali, e, comunque, in un periodo di tempo che può coincidere con quello del disastro di Ustica.

I piloti Naldini e Nutarelli sono a bordo del loro F 104 nel momento in cui il DC 9 dell’Itavia, colpito da un missile, esplode in volo e si inabissa al largo di Ustica, ma anche quando il MIG libico cade sulla Sila con la carlinga crivellata di colpi: quelli sparati da un altro aereo militare. Italiano? Naldini e Nutarelli, ligi – da buoni ufficiali – alla consegna del riserbo, si limitano a condividere coi propri colleghi, una volta giunti a terra, la constatazione che quella mattina, intorno alle 9, c’era guerra nei cieli italiani. I due testimoni muoiono inaspettatamente a Ramstein, in Germania, nell’agosto dell”88, urtandosi tra di loro, sui jet delle Frecce Tricolori che sibilano a pochi metri dalla pista: un incidente banale, da principianti, quali essi non erano. Intorno a loro, disseminati nello spazio e nel tempo, decine di morti: tutti quelli che, per aver visto e udito, sapevano. Un’ecatombe.

L’aereo KM 153, intanto, è sparito, dai libri, dai giornali, dalle inchieste giudiziarie, fatuo e opinabile come una scia chimica. Si propende, ma senza prove, per uno scenario più tormentato nel quale entrano ed escono decine di velivoli, francesi e americani, alzatisi dai ponti di volo della Saratoga e della Clemenceau, in navigazione nel Tirreno. 

Il 16 marzo del ’78, un commando (o, piuttosto, un ologramma) delle BR rapisce Moro in via Fani. Durante la notte tra il 15 e il 16, un Mystere 20 dei servizi segreti libici era atterrato a Fiumicino e si era posizionato in una zona appartata dell’aeroporto. Ne era discesa una delegazione di Gheddafi con l’incarico di incontrare, presso il Grand Hotel, il massimo rappresentante della politica estera vaticana, Mons. Casaroli, ma rimangono oscure le vere ragioni di quel bliz a Roma. Il Mystere 20 decollerà la mattina del 16, per Parigi,  subito dopo il massacro di via Fani: prima del quale – secondo voci raccolte dai nostri servizi di Sicuezza – c’era stata da parte dell’ambasciata libica una massiccia distribuzione di armi, molto presumibilmente a favore dello squadrone della morte, composto da guerriglieri della Saiqa siriana, che era stato addestrato in un campo alla periferia di  Germa, nel Fezzan, da George Habash: gli stessi  che si sarebbe poi materializzati sul luogo dell’agguato a Moro, travestiti da musicanti.

Il 2 agosto 1980, la carneficina di Bologna. Alle ore 10, 25. Con un’approssimazione di qualche decimo di secondo, in contemporanea con la firma a La Valletta dei preliminari dell’accordo con cui l’Italia s’impegna, per conto della NATO, a preservare Malta dalle mire espansionistiche della Libia. La firma, per la parte italiana, è del sottosegretario agli Esteri, Giuseppe Zamberletti, il quale, nel libro “La minaccia e la vendetta, Ustica e Bologna, un filo tra due stragi”, del ’95, si è sforzato inutilmente di spostare l’attenzione degli inquirenti e dell’opinione pubblica – frastornata dalle piste inverosimili “fabbricate” dai maestri della disinformazione – verso la sindrome libica, che si manifesta, a mio modesto parere (quello espresso nel libro- inchiesta “Ecce Moro”, pressoché introvabile) assai prima dell’atroce doppietta dell’anno ’80.

Solo a degli investigatori intronati – o affetti da robusta malafede – può sfuggire l’esistenza, in questa concatenazione di episodi, non solo di un denominatore comune, ma anche di un’abbagliante semplicità. Le complicazioni, come in questo caso, scaturiscono dall’ambiguità dei legami che si stabiliscono e si allentano di continuo con la Libia di Gheddafi.

Legami, che a rompersi, non si rompono mai. C’è il petrolio di mezzo. Il sangue della nostra economia, ma anche una tossina implacabile che rimane per diversi anni in circolo nei piani alti della politica (lo scandalo MI.FO.BIA.LI, il petrolio libico contrabbandato dalla Guardia di Finanza, un traffico illegale del quale si arricchiscono segretari di partito, monsignori e mandarini con le stellette). Gheddafi è la stessa persona che entra, nel 1976, nel sancta sanctorum della FIAT e che sei anni prima aveva buttato fuori, a calci nel culo, migliaia di Italiani dalla quarta sponda. Gheddafi è quello che lancia i missili su Lampedusa, perché glielo ha chiesto Craxi, semmai gli Americani sospettassero di averlo aiutato a schivare quelli di Reagan.

C’è, poi, un’altra fonte di luce che agisce ad intermittenza sui rapporti tra Italia e Libia e che lampeggia anche su quelli apparentemente lineari tra Est ed Ovest, nel corso della Guerra Fredda.

 “Osservatore Politico” O.P, la rivista border line di Pecorelli, affermò in più di un’occasione che tutta la vicenda Moro era stata pesantemente irradiata da Yalta. Un delitto politico bipartisan a livello internazionale, nel quale trovava ogni plausibile ragione il coinvolgimento dei libici (da lui mai citati: se ne trova invece traccia nei documenti del SISDE) e quello dei siriani che, stando allo stesso Pecorelli e ad altre carte prodotte dai Servizi, avrebbero tenuto prigioniero Moro, sin quasi dall’inizio, nella loro ambasciata dopo averne annientato la scorta.

L’ipotesi che il Mig libico trovato sulla Sila avesse colpito forse per errore il DC 9 dell’Itavia scambiandolo per l’aereo di linea maltese (una ritorsione per il voltafaccia compiuto da Dom Mintoff nei confronti di Gheddafi), e che esso fosse stato successivamente abbattuto dal caccia  pilotato da Naldini e Nutarelli, nella battaglia che ne seguì, regge un po’ di più di tutte le ricostruzioni barocche allestite in questi quarant’anni per far deragliare la verità e mandarla a sbattere contro il muro del politicamente corretto, puntellato dalla ragion di Stato.

Regge anche l’ipotesi, che sia stata la penna di Zamberletti, nell’atto di appoggiarsi sulla carta per tracciare una firma, a far detonare idealmente la bomba di Bologna.

Ma ammetterlo, tutto questo, costa. Nebbia fitta su Ustica. Fumo rosso sul caso Moro. Su Bologna – il buco più grande – è stata applicata la toppa dei “fascisti”, l’equivalente del “noumeno” kantiano, l’inconoscibile, perché uno dice: “fascisti! sono stati i fascisti, guarda l’uccellino”, e tutti si girano da quella parte.

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