Un ragazzo ucciso, nessun assassino

 

Un ragazzo ucciso, nessun assassino

 Le sentenze non si commentano, si rispettano, dicono spesso i politici, soprattutto quando le sentenze “bastonano” i loro avversari, che, quindi, contestano le decisioni dei giudici. “I magistrati – abbiamo sentito ripetere tante volte – devono operare in piena libertà e in totale autonomia e ogni pressione è indebita”.

Tutto giusto, tutto vero. Ma quando i processi riguardano non i politici, ma i semplici cittadini è davvero difficile non commentare, specie se si tratta di episodi che sono da tempo al centro dell’attenzione mediatica. È il caso della sentenza di appello per l’omicidio di Marco Vannini, il ragazzo di 20 anni ucciso nel 2015 a casa della fidanzata, Martina Ciontoli: il padre della ragazza, un maresciallo della Marina, Antonio Ciontoli, si è visto ridurre la pena da 14 a 5 anni, mentre tutti gli altri familiari di Ciontoli (Martina compresa) si sono visti confermare una pena di tre anni e questo lascia stupefatti non solo la mamma, Marina Conte, e i parenti del ragazzo, ma tutti coloro che hanno seguito le fasi processuali e le tantissime testimonianze, che hanno cercato di fare luce sulle ultime ore di vita del giovane.

Sì, perché Marco Vannini morì in ospedale, dove arrivò con un ritardo di almeno due ore, per le bugie raccontate da Ciontoli (così sostengono la mamma di Marco e l’accusa) nelle telefonate al 118: Marco era stato raggiunto da un colpo di pistola (sembra esploso per errore), ma Ciontoli col 118 parlava di un foro causato dalla punta di un pettine, non da un proiettile Le registrazioni delle telefonate sono agghiaccianti, si sente il ragazzo urlare e invocare la mamma, ma tutti i Ciontoli (compresa Martina) hanno sempre detto, nei diversi interrogatori, che non si percepiva la gravità della ferita e che, comunque, il capofamiglia, Antonio, sembrava in grado di tenere sotto controllo le cose. Fino a quando non si comprese che la situazione era tragica e ci si arrese, facendo intervenire il 118.

Il caso è stato oggetto di dibattiti e trasmissioni tv e a tutti – ma evidentemente non ai giudici di appello – sembrava chiaro che Ciontoli e i suoi familiari, come era emerso dalla sentenza di primo grado, avessero mentito a più riprese.

La sentenza di appello, però, spazza via tutto, indica Ciontoli come reo di un semplice omicidio colposo e scatena l’ira e la disperazione della mamma di Marco. E il sindaco di Cerveteri commenta: “uno Stato che consente di uccidere un suo ragazzo, senza che i suoi assassini vengano di fatto puniti, non è uno Stato di diritto, ma uno Stato in cui la giustizia ormai è morta e le istituzioni non sono più un riferimento credibile per i cittadini”. Parole forti, che racchiudono lo sdegno di un’intera comunità, per una vicenda ai limiti dell’incredibile.

Noi, che sappiamo quello che hanno visto e sentito tutti, siamo sinceramente perplessi e abbiamo difficoltà a non concordare col sindaco di Cerveteri. È vero: le sentenze non si commentano. Purtroppo, in casi come questo, si commentano da sole.

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