Goebbels scrisse anche nei sui diari – dei quali ci si può certo fidare visto che il ministro del Reich non aveva nessuna intenzione di sopravvivere alla sconfitta tedesca e non aveva nessun bisogno di edulcorare le sue opinioni – che Mussolini era troppo legato alla sua italianità e non era un vero rivoluzionario come Hitler e Stalin che erano pronti a sovvertire il mondo. In altre parole, Mussolini metteva l’Italia prima della rivoluzione e non era disponibile a lasciarla bruciare pur di non cedere.
Fu proprio su questa italianità, come si è visto, che Hitler ottenne l’assenso di Mussolini alla formazione della Repubblica Sociale Italiana, definizione che il dittatore tedesco non amava, tanto da invitare Mussolini a riflettere ancora sul nome. Il Duce invece annunciò alla radio il nuovo Stato con il nome che aveva deciso, prima dell’ultimo colloquio con Hitler. Si tratta di un nome che rende ragione del lascito testamentario agli italiani che non volevano abbandonare l’idea neanche una volta che questa fosse stata sconfitta; è noto come la socializzazione dovesse costituire la mina sociale che avrebbe impedito, nelle intenzioni del Duce, il ritorno allo status quo ante – e invece sarà la prima legge che il Cnlai abolì – e come le parole d’ordine affidate al futuro fossero Italia, repubblica, socializzazione e non si accenni neanche al fascismo.
Del resto, Mussolini diceva apertamente che i fascisti nella futura Italia postfascista dovessero entrare nel partito socialista e non pensò mai alla costituzione di un partito che si richiamasse esplicitamente al regime passato in quanto comprendeva che ciò avrebbe significato rinchiudersi in un ghetto. Quello che successe alla formazione della Rsi è noto: la guerra civile e la persecuzione degli ebrei. È anche quest’ultima una responsabilità dell’8 settembre. Infatti le leggi del ’38, che pure erano un incomprensibile orrore, erano leggi discriminatorie e non persecutorie e infatti non ci fu persecuzione degli ebrei durante il regime e la guerra; e anche se il Manifesto di Verona proclamava gli ebrei appartenenti a una razza nemica nel conflitto in atto, la persecuzione in Italia si ebbe solo quando l’armistizio lasciò ai tedeschi mano libera nel nostro Paese.
In conclusione, come scrisse Salvatore Satta nel suo De profundis, l’8 settembre costituì l’atto di morte della patria – un’espressione divenuta famosa una volta che venne riutilizzata per un suo libro da Galli della Loggia – ovvero la morte della nazione intesa come vincolo di appartenenza a una realtà etico-politica. Ed è proprio questa la responsabilità più grande dell’8 settembre; più grande perché i suoi effetti ancora scontiamo con la fine di ogni senso civico che può solo accompagnarsi al senso di appartenenza a una comunità.