A cento anni dalla riforma Gentile, dove va la scuola italiana?
Nel 1923, la prima riforma del primo governo Mussolini riguardò la scuola in ogni suo ordine e grado. Uno Stato che non voleva considerarsi come semplice apparato amministrativo, ma, sia pure ancora in nuce, preavvertiva il suo carattere etico, non poteva disinteressarsi dell’educazione dei giovani; nello stesso tempo, però, un governo che non voleva improvvisare superficialmente, sapeva bene che una riforma dell’istruzione dalle elementari all’università non poteva concepirsi e partorirsi nel giro di pochi mesi.
A realizzare l’imponente opera di riorganizzazione venne chiamato il filosofo Giovanni Gentile, il quale portò in dote al fascismo un ripensamento della scuola italiana che era già maturo in ambito idealistico e aspettava solo un governo abbastanza forte e autorevole per trasformarlo in realtà effettuale.
Già Benedetto Croce, nell’ultimo governo Giolitti, aveva tentato di dar forma ad alcuni suoi elementi, senza riuscirvi ovviamente, data la debolezza e i numerosi problemi di quell’esecutivo. Gentile e il fascismo furono funzionali l’uno all’altro: il fascismo offriva al filosofo e a tutta la scuola idealistica la possibilità di attuare la riforma, mentre Gentile offriva al fascismo una riforma della scuola pensata e meditata da tempo.
Ottenuto il dicastero della Pubblica Istruzione, Gentile chiamò come direttore dell’istruzione elementare Giuseppe Lombardo-Radice, il quale lasciò la direzione della rivista “Educazione nazionale” a Ugo Spirito; mentre a sovraintendere alla riforma per l’istruzione universitaria, Gentile chiamò Leonardo Severi, che certo non se ne dimostrerà riconoscente, quando il vento non sarà più favorevole al regime.
I capisaldi della riforma furono, tra i tanti, la valorizzazione della figura del maestro con la creazione dell’Istituto magistrale in sostituzione delle vecchie Scuole Normali, con annessi giardini d’infanzia o Case del bambino e con un ruolo assegnato all’insegnamento della musica, considerato il suo alto valore formativo; l’accento posto non sui contenuti dei programmi, ma sullo sviluppo di quelle che oggi chiameremmo capacità e competenze; il ruolo centrale del Liceo classico, volto alla formazione della futura classe dirigente, che permetteva l’accesso a tutte le Facoltà universitarie; la creazione del Liceo scientifico che invece permetteva l’accesso a Scienze e Medicina; il potenziamento degli istituti tecnici e professionali; l’autonomia delle università per quanto riguarda regolamenti e programmi. Inoltre, Gentile introduceva l’insegnamento della religione cattolica, intesa come fondamento e coronamento dell’istruzione elementare, avendo affermato già nel 1907 l’esigenza di conferire un’anima alla scuola, che, nei primi anni del ciclo educativo, non poteva che essere data dalla religione storica deli italiani.
La religione era evidentemente considerata una filosofia inferiore, “per bambini”, i quali, una volta cresciuti, avrebbero avuto un accesso razionale alla spiritualità della vita. E questo benché Gentile si sia sempre professato cattolico.
Come tutti gli eretici, del resto. Infine la riforma introduceva una serie di esami che culminavano in quello di maturità – l’attuale Esame di Stato – che prima era riservato solo agli alunni delle scuole private: la possibilità di inserire l’esame, stante le inevitabili proteste che sarebbero venute dai genitori, fu la conditio sine qua non posta da Gentile a Mussolini per accettare l’incarico ministeriale. E fece bene, considerate le proteste di studenti, genitori e degli stessi fascisti rivolte alla riforma. Soprattutto i fascisti protestarono perché la scuola andava verso una selezione molto forte, basata giova ricordarlo sull’intelligenza e non sul censo, ma non andava verso una direzione fascista. Proprio per silenziare i suoi, Mussolini affermò che quella Gentile era la più fascista delle riforme.
A cent’anni dalla riforma, cosa ne è rimasto? Molto, fortunatamente per la scuola italiana. Infatti, i ritocchi successivi – non quelli durante il regime, quanto quelli del dopoguerra – improvvisati e demagogici – hanno inferto colpi che non sarebbero nemmeno troppo duri, se non fosse peggiorato il livello del corpo docente, dalle elementari all’università.
La parola merito viene rinnegata dallo stesso ministro che ha voluto inserirla e che invece parla continuamente di inclusione, di successo formativo da assicurare, quando parlare di merito, piaccia o meno, implica parlare di selezione. O l’idea è quella di rendere tutti meritevoli ope legis? Oggi è il docente che deve porsi al livello dell’alunno e non più questo che deve elevarsi a un livello che il docente ha il dovere di rappresentare.
La svolta peggiorativa è accompagnata da entusiasti carnefici, gli insegnanti, i quali, se non hanno volontà di studiare e migliorarsi, non possono che giovarsi dell’esaltazione della mediocrità, spesso mascherata dietro una medicalizzazione del problema. Della riforma gentiliana resta ancora sostanzialmente il corpo, ma l’anima è volata via. Insieme all’idea di una scuola che rappresenti davvero un elemento di formazione.
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