A fine stagione Gambettola

Gambettola

A fine stagione Gambettola

A fine stagione, quando il mese di settembre volgeva al tramonto, si prendeva il treno Ancona-Bologna e si scendeva alla stazione di Gambettola, paesone poco distante da Cesena e là dove scorre il celebre Rubicone. Durante la guerra gli alleati, per snidare i tedeschi in ritirata verso la linea Gotica – autunno del ’44 – lo bombardarono prima d’entrarvi da ‘liberatori’. E gli abitanti, nei mesi successivi, si diedero a raccogliere il materiale bellico abbandonato e lo accatastarono sotto grandi capannoni in spiazzi erbosi. Divennero noti quali ‘straccivendoli’. Tutta roba in gran parte dell’esercito USA, che aveva invaso la nostra penisola con la potenza dell’acciaio prima di comprarsela con l’oro. Così, da solo o con qualche coetaneo, tutti rigorosamente ‘camerati’ – e nel corso di una vita ormai trascorsa lo siamo rimasti, ottusi forse e forse fedeli per tigna -, s’andava a rovistare con la speranza, il più delle volte delusa, di trovare oggetti della Wehrmacht.
Una sera l’architetto Speroni, che aveva combattuto nell’Aviazione Repubblicana ed era l’unico consigliere del MSI a Riccione, ci condusse dall’unico ‘repubblichino’, dichiarato, che viveva in una villetta appartata fuori del paese e circondata da un pezzetto di giardino con un paio d’alberi da frutta. Era un uomo alto e robusto, credo, sui trenta anni o forse più (ai nostri occhi già vecchio e carico di storia). Non ricordo il suo nome. Ricordo, invece, che aveva gli occhi chiari e buoni. Sedeva in poltrona, accucciati ai piedi due doberman dal muso affilato lo sguardo vigile le zanne feroci. Erano la sola sua compagnia in passeggiate notturne, lungo i viottoli polverosi fra i vigneti, e sua protezione contro chi, non solo a verbose e anonime minacce, avrebbe voluto bastonarlo. Si esprimeva in stretto dialetto – ed io faticavo a seguirlo – con un tono aspro e agitando la mano come a tagliare idee. Contro tutto e tutti.
Raccontava come, le rare volte che andava in piazza e al bar a prendere un caffè, lo seguivano sguardi torvi mani serrate un lesto silenzio e, se non stava accorto, gli sputavano nella tazzina. E aggiungeva che l’avrebbero tollerato se si fosse tolto la camicia nera, avesse rinnegato, dichiarato d’essere stato in errore. Ma, lui no (‘Etiam si omnes, ego non’, ed io pensavo lo stesso monito, la medesima promessa qui, però, mantenuta). Quella camicia nera era simile a un lavacro, bagnata dal suo sangue e da quello dei traditori dell’otto di settembre. No, era il suo sudario da vivo. E la fronte s’imperlava di sudore nella foga del dire, il corpo era pervaso quasi da un tremito d’ira. Solo quando nominava il Duce – lo chiamava il ‘suo Mùsslen’ – la voce s’attutiva, quasi fosse un sussurro, dolcezza improvvisa dolore infinito, e gli occhi si velavano di lacrime che ricacciava con gesto brusco e timido.
Sono trascorsi oltre cinquant’anni. Ho raccolto esperienze gesti volti luoghi. Le pareti dove scrivo sono foderate di libri, molti – lo confesso – inutili raccoglitori di vana chiacchiera, copie di quelli che portano il mio nome come autore. Egli conosceva poco e male l’italiano, forse era sgrammaticato nello scrivere… Eppure, nei risvegli di ricorrenti cattive notti mi sembra di rivedere i suoi occhi buoni e sentirlo bisbigliare del ‘suo Mùsslen’. E mi confermo che, anche suo tramite, ho compreso che lo Stile nasce prima d’ogni ardita e nobile idea, d’ogni ragionamento e convinzione. E che, sì, nonostante tutto, valga la pena ‘etiam si omnes, ego non’.

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