A rileggere la Carta del Carnaro

 

A rileggere la Carta del Carnaro

Nel centenario della sua promulgazione (avvenuta l’8 settembre del 1920) l’edizioni libere di Passaggio al bosco hanno voluto ripubblicare la Carta del Carnaro, a cura di Emanuele Merlino e con il contributo di alcuni validi studiosi dell’impresa di Fiume a opera di Gabriele D’Annunzio. Iniziativa meritoria, tenendo conto come D’Annunzio continui a pagare la marginalità nel mondo della critica e letteraria e storica per il suo essere accostato al ‘male assoluto’. Nonostante Renzo De Felice si sia adoperato a marcarne le distanze (anche in eccesso), Claudia Salaris abbia interpretato aspetti del fiumanesimo come una sorta di archetipo del ’68 (titolo del suo pregevole libro Alla festa della rivoluzione), Giordano Bruno Guerri, che tanto si spende per tenere in attivo il Vittoriale, con Disobbedisco, cinquecento pagine, si concentri ancora una volta e con rinnovate energie sull’inconciliabile rapporto/divergenze del Vate con il futuro Duce del Fascismo. Su questo qualcosa scrivemmo, insieme all’amico Rodolfo Sideri, in Inquieto Novecento già nel lontano 2004. Iniziativa meritoria, con aggiunta de il Nuovo Ordinamento dell’Esercito Liberatore (lo stesso D’Annunzio lo introduce con La fiamma intelligente) e il discorso della Riconciliazione, 2 gennaio 1921, dopo il Natale di Sangue, di fronte ai caduti nello scontro fratricida nel cimitero di Cosala. Titolo del volume La sola ragione di vivere (e l’invito ad acquistarlo e leggerlo non ha del “nepotismo”, ma perché merita rinnovarne in noi la memoria di uomini e idee che furono ben oltre e più in alto la miseria del presente).

Qui mi conta accennare a un passo de La fiamma intelligente ove si legge «Quel che è scritto col sangue non potrà mai essere abolito». A un attento lettore di Nietzsche non può sfuggire quanto il filosofo scrive in Così parlò Zarathustra «Di tutto ciò che è scritto, io amo solo ciò che uno scrive col sangue. Scrivi col sangue e imparerai che il sangue è spirito». Sappiamo come D’Annunzio fu il primo o fra i primi a introdurre in Italia la conoscenza (che, poi, l’abbia ben inteso è altra cosa) del filosofo tedesco. Ne Le vergini delle rocce il protagonista, Claudio Cantelmo, ne rappresenta la volontà di potenza, esprime quel superomismo da contrapporre, come già si legge ne Il piacere al «grigio diluvio democratico odierno». È l’ideale rinascimentale La vita come opera d’arte che il Poeta inseguì inesausto per tutta la sua esistenza. (Il sarcasmo con cui lo si tratta tuttora, vedi i tanti mediocri professori di Lettere, ad esempio, nel liceo dove ho “coabitato” per quarant’anni, è la riprova della morta gora in cui s’è risolta la scuola italiana. Del resto i mostriciattoli misurano il mondo con i parametri della loro altezza…). Un plagio? Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges parla di una biblioteca universale ove il sapere è il frutto di pensieri parole immagini sensazioni che vanno tracciando il cammino l’uno dopo l’altro. Altrimenti raccogliere il frutto maturo per renderlo rinnovato con il proprio linguaggio il proprio sentire. È lo stesso Nietzsche ad affermare come la grandezza sia nel dare/darsi una direzione.

La Carta del Carnaro, elaborata da Alceste De Ambris e tradotta con il linguaggio del Poeta, è un monumento al di là e oltre il suo tempo (la Reggenza del Carnaro ebbe vita breve e ad altro il Fascismo si diede al momento di trasformarsi in Regime, pur mediando simboli ritualità richiami di quell’avventura), inattuale e inattuata. Un’eco suggestiva a cui attingere, idealmente, per non arrendersi al contingente al banale all’effimero con il quale ci confrontiamo, per dirla sempre con Nietzsche, in questo tempo ove ‘l’oggi appartiene alla plebe’ (plebe e non popolo, si badi bene).

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