Amore che vieni, amore che vai

Amore che vieni, amore che vai

Di sera, prima di spengere la luce e accartocciarmi sotto il copriletto – non mi infilo più dentro le lenzuola, i movimenti sono sempre più faticosi e ieratici, tutta colpa del ‘generale’ Parkinson -, vado su YouTube ad ascoltare qualche canzone che trasporta sovente la memoria ad immagini d’un vissuto ormai fattosi lontano.

Sono le trincee, le barricate, il Ridotto Alpino o il bunker, aprile ’45 del mio personale vissuto e, se mi fanno venire il magone, sono anche forme imperfette e necessarie di sopravvivenza. Ieri sera Fabrizio De André cantava ‘amore che vieni, amore che vai’…

Ci sono amori, tuttavia, che rimangono nel cuore, si rappresentano nella mente. La mamma, si dice, il primo bacio, non si scordano mai. Ieri sera, nella dissolvenza della musica, nei gesti reiterati del corpo, il soldato tedesco che abbandona il fucile e diserta mentre mia madre mi metteva al mondo. Passaggio del testimone per l’eterna lotta del sangue contro l’oro, ‘viva l’Europa! Viva il Fascismo!’, come concludeva la fiera e struggente lettera Franco Aschieri, anni 19, fucilato quale sabotatore della RSI a Sant’Angelo in Formis, aprile ’44.

Se alzo lo sguardo, in una cornicetta, fantasiosa realizzazione di un compagno di cella con ritagliati pacchetti di sigarette, il tuo volto mentre rivedo la tua esile figura, lungo la banchina della ferrovia in territorio spagnolo, corrermi incontro felice e con il vento tra i capelli. E quel marzo del ’68, a Valle Giulia, in una mattina di annunciata primavera, bastoni e manganelli caroselli della Celere e le prime molotov. Partecipo, intrufolatomi con ardito cipiglio e senza ostacolo, ad un incontro di solidarietà tra studenti italo-francesi nell’aula magna della facoltà di Filosofia alla Sorbona, Parigi. Accolti al grido ritmato e storpiato di ‘Valle Giulia!’ e, poi, gli inesorabili e pallosi e verbosi interventi ideologici (qui Marx non si sbagliava a definire l’ideologia ‘mistificazione della realtà’).

Mi annoio. Me ne vado. Il piccolo cimitero a ridosso della chiesa a Saint-Germain de Charonne, oasi di silenzio e nitore dove ormai domina il degrado della periferia parigina. In un tripudio di fiori la tomba di Robert Brasillach. Incontro della parola – ne aveva scritto ne I sette colori – e del corpo – dopo la fucilazione del 6 febbraio ’45 la lunga attesa per esservi sepolto e, nello stesso sarcofago, la madre.

‘Amore che vieni, amore che vai’, cantava De André. Quanti i volti, i baci, le parole come fiori colti e presto appassiti, simili a fiammelle fugaci ai lati del percorso di un cieco errante. Colui che percorre le vie della grandezza, nella grandezza costui è costretto ad errare (non è certo che il filosofo Martin Heidegger si sia così espresso e che rappresenti con accento di eroica sconfitta il proseguo dell’aforisma di Nietzsche sulla grandezza e il dare una direzione). Le idee – il rosso e il nero, distinti intrecciati in scontro fra loro – i bastoni le barricate le sbarre alla finestra la cattedra a sfida e a zattera di presunti disastri e naufragi. Viene la sera, la musica, il corpo raccolto a dare al sogno la libertà d’essere ancora… là dove il soldato esausto e disperato si arrende e consegna il fucile ad altra mente altro braccio altro cuore. Eterno ritorno.

 

Immagine: http://www.lachiavedisophia.com/

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