5 febbraio 1909, nella “Gazzetta dell’Emilia” di Bologna Filippo Tommaso Marinetti pubblica il primo dei “Manifesti” del Futurismo:
«Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa … un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia … Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro … Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore …». Le immagini che Marinetti evoca descrivono la condizione dell’intellettuale moderno, insoddisfatto di una società troppo ancorata ai valori del passato. Loro, gli uomini nuovi, sono irrequieti, stanno svegli, ragionano, scrivono ma non riescono ancora a liberarsi. La modernità, la tecnologia, paradossalmente fanno risvegliare gli istinti naturali, si dimentica la ragione e si corre, rischiando, verso il nuovo.
Il 20 febbraio il testo “Fondation et manifeste du futurisme” esce sulla prima pagina del giornale parigino “Le Figarò”. Successivi manifesti riguardarono il teatro, le arti figurative, la musica, l’aeropoesia, l’aeropittura ecc. Il Movimento di F.T. Marinetti, avrebbe dovuto fare tabula rasa del passato e di ogni forma espressiva tradizionale, ispirandosi al dinamismo della vita moderna, della civiltà e del progresso, proiettandosi verso il futuro fornendo il modello a tutte le successive avanguardie.
Alla fine della prima guerra Mondiale F.T.Marinetti (con due medaglie al valor Militare), deluso dalla “vittoria mutilata” partecipa all’impresa fiumana, poco dopo fonda il “Partito Politico Futurista”, con un programma che contempla lo “svaticanamento dell’Italia” e il passaggio dalla monarchia alla repubblica (oltre alla distribuzione di terre ai combattenti e il suffragio universale). Il 23 marzo 1919 Marinetti partecipa con Mussolini all’adunata di piazza San Sepolcro a Milano: da quel momento il Partito Politico Futurista confluirà nei Fasci di combattimento.
Il Futurismo, è di fatto il primo movimento “Progressista” Italiano, e per questo, e con questa linea partecipa alla nascita del Fascismo, visto come strumento di progresso verso il conservatorismo borghese. Marinetti tuttavia tiene a ribadire l’originalità del futurismo rispetto al fascismo, ed è scontento della svolta “reazionaria”, di un Mussolini “costretto” a relazionarsi con Chiesa e Monarchia. Malgrado questo Marinetti parteciperà come volontario alla guerra di Etiopia (1936) e addirittura (a sessantasei anni) alla spedizione dell’ARMIR in Russia dove tra l’altro il suo movimento artistico era fra i più considerati. Tornato in Italia, stanco e malato, aderirà alla Repubblica Sociale Italiana, che per certi versi rappresenta un ritorno agli ideali fascisti del 1919. Morì a Bellagio, sul lago di Como, il 2 dicembre 1944, in seguito a una crisi cardiaca, aveva appena scritto il suo ultimo testo, “Quarto d’ora di poesia della X Mas”. Con la fine della seconda guerra mondiale gli eredi del Fascismo, esclusi dalla “costituzione più bella del mondo” dalla vita politica italiana (o almeno da quella che conta) sono stati posti fuori da una narrativa “progressista”, e rivoluzionaria, abbandonata (per scelte altrui) la linea della modernità, si sono ritrovati ad interrogarsi sul destino dell’uomo, e dunque sulla morte. Che senso aveva una vita, esperita in un panorama storico contrassegnato dal materialismo e dall’edonismo liberale? Queste domande hanno percorso l’atteggiamento della destra post fascista davanti alla morte. Da de Maistre a Barrès, dagli scrittori della “Konservative Revolution” da Evola a Guenon, passando per la legione dell’Arcangelo Michele di Codreanu, la cultura della destra ha scrutato la morte quasi con ossessione, il motivo è rintracciabile nel ruolo che, all’interno del suo universo ideologico, ha svolto la categoria di “Tradizione”. Ora, la Tradizione, per quanto ci si impegni sul piano politico nel tentativo di farla rivivere, ha sempre attinenza col passato, un passato da riportare in auge con una serie di riti, identificativi di una comunità. L’utilizzo del termine “Camerata” usato ed abusato all’interno della destra istituzionale Missina ed anche dei vari gruppi extraparlamentari rimanda alle camerate delle caserme, dove si dormiva tutti assieme, si divideva un desco comune, ci si relazionava con l’altro, da pari, a prescindere dallo stato sociale, uniti da un “nemico”, che era sempre fuori, in agguato. Nemico che anche in età repubblicana sino alla metà degli anni 80 era solito scrivere ed urlare nelle piazze, che “Uccidere un Fascista non è reato”, e molti, troppi, sono stati i ns. giovani caduti sotto i colpi nemici, non solo di sinistra, ma spesso di quello stato, di cui restavano gli ultimi adoratori, in un’epoca in cui il solo esprimere il concetto di patria era considerato reazionario.
La sinistra pensa la vita come se la morte non ci fosse; la destra pensa la morte come prolungamento della vita. Per la sinistra, le masse, la classe, non muoiono, solo gli individui sono biologicamente finiti, sostituiti inevitabilmente da altri. Per la destra, non solo l’individuo muore, persino i soggetti collettivi cui essa si riferisce, nazione, razza ecc., possono morire, annegati nelle tempeste della modernità. Per la cultura di destra post bellica, la morte deriva dal giudizio sulla società liberal/conservatrice, quale società di morti, ovvero intrisa di fenomeni di degenerazione e di decomposizione. “La bella morte”, motto d’impronta dannunziana, divenne canto e simbolo dei volontari e delle ausiliarie della R.S.I. “La bella morte” è anche il titolo di un libro di Gianni Oliva pubblicato da Mondadori. Oliva è uno storico e giornalista della sinistra torinese; viene dal Pci, nel suo libro racconta, senza veli ideologici , la storia della socializzazione, la spinta modernista del fascismo/rivoluzione. Scrive in tal proposito Marcello Veneziani: “Con la socializzazione e con la guerra il fascismo tornava alle sue origini: è il destino circolare del fascismo nato da una guerra, morto in una guerra; nato come eresia nazionale del socialismo, morto come eresia sociale del nazionalismo.”
Per questi ed altri motivi, il tema del martirio per un’ideale superiore è organico non solo al Futurismo, al fascismo, primo ed ultimo (Sansepolcrista e repubblichino), ma anche del post fascismo. Le “commemorazioni” dei caduti, e il festeggiamento di particolari date della storia, antica e moderna, fanno parte integrale di una comunità umana prima che politica, con una specifica storia e specifici rituali. Fra questi vi è senza dubbio il rito del “Presente” e del saluto al caduto, o in ricordo di esso con il braccio teso. Come ogni anno dal 29 aprile 1975 a Milano le comunità della destra Politica commemorano un caduto degli anni di piombo, il militante del Fronte della Gioventù Sergio Ramelli, aggredito il 13 marzo da un gruppo di attivisti dell’estrema sinistra extraparlamentare legati ad Avanguardia operaia. Da qualche anno (dalle giunte di centrodestra) anche le istituzioni sono obtorto collo “costrette” a commemorare il giovane “nemico”, quelle stesse istituzioni che la sera del 29 aprile del 1975 quando il consigliere comunale Missino Tomaso Staiti di Cuddia ne annunciò in consiglio la morte iniziarono a ridere ed applaudire. Alla commemorazione ufficiale sul luogo dell’omicidio, oltre al sindaco della città Giuseppe Sala, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, presente nel capoluogo lombardo per partecipare alla kermesse del suo partito, kermesse dove ha ribadito le sue posizioni conservatrici, liberiste ed atlantiste. La presidente di Fratelli d’Italia ha preso le distanze dal corteo che si sarebbe tenuto in serata. Alla domanda sui saluti romani ha risposto con un secco “secondo me sono antistorici”. La presidente dei “Conservatori Europei”, dopo aver liquidato l’eredità progressista del fascismo movimento di ispirazione futurista, con queste parole ha liquidato anche la parte cultuale di una comunità ormai in lenta dissoluzione, dissacrandone i simboli, molto peggio di Fini, che nonostante abbia cercato di affogare la sua comunità nelle acque di Fiuggi, lo legittimò (come del resto anche la legge Italiana) come estremo saluto ad un caduto. Da 100 anni la nostra gente ha sempre onorato così i suoi morti, di antistorico c’è solo la voglia di essere accettati dai “salotti buoni”. Quei ragazzi sono stati ammazzati in quanto “fascisti“, e cercare di nasconderlo non significa essere “moderni”, ma semplicemente irriconoscenti. Il nemico di oggi del partito erede di Fiuggi, è la Russia di Vladimir Putin, non in quanto “comunista” (perché non lo è) ma in quanto alternativa al modello occidentale di cui noi siamo stati gli storici nemici. Gabriele D’Annunzio scrisse: “Liberiamoci dall’Occidente che non ci ama e non ci vuole. Volgiamo le spalle all’Occidente che ogni giorno più si sterilisce e s’infetta e si disonora in ostinate ingiustizie e in ostinate servitù. Separiamoci dall’Occidente degenere che, dimentico d’aver contenuto nel suo nome «lo splendore dello spirito senza tramonto», è divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica”. Vladimir Putin scrisse sul Comunismo: “Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore.“, frase utilizzabile specularmente anche per il nostro mondo. Mi dispiace per i tanti amici, che ancora militano in questa destra al popcorn, ma qui cervello e cuore, sono ormai stati ipotecati in un banco dei pegni statunitense, personalmente spero che quando il mio spirito abbandoni questo piano dell’esistenza, lo faccia “planando sopra boschi di braccia tese”.