[APPROFONDIMENTI]: l’intimità perduta

 

[APPROFONDIMENTI]: l’intimità perduta

Nella rete virtuale l’uomo ha cancellato le distanze, coagulando Spazio e Tempo in un tragico eterno presente, e non pago, esso si spinge nell’esplorazione del cosmo e ancor più immagina e fantastica un futuro in cui anche le distanze fisiche si assottiglieranno fino quasi a svanire. Tutto questo, mentre la lontananza dal suo prossimo e dal Sé più intimo ha toccato il limite estremo. La conquista degli spazi esterni è invero proporzionale alla perdita dell’unico vero spazio che necessita di essere conosciuto e governato: quello interiore. Ci si conosce e si ama solo da anima ad anima, e nell’ardita discesa che conduce ad essa non si può esser soli: occorre un Maestro.

La triplicità dei gradi nella società medievale rappresentava la regola: nell’istituzione ecclesiastica con i Diaconi, Presbiteri e Vescovi, nell’istituzione cavalleresca con la gerarchia dei Paggi, Scudieri e Cavalieri, nell’istituzione universitaria con i gradi accademici del Baccelliere, del Laureato e del Dottore, e infine all’interno dell’ordine corporativo con le figure dell’Apprendista, del Compagno e del Maestro d’arte. Proprio da quest’ultima figura vogliamo prender le mosse per meglio descrivere l’abisso di disumanità nel quale oggi siamo precipitati.

Il sostantivo greco phrater, da cui il latino frater e quindi il nostro fratello, ha come suo primitivo significato quello di fratello spirituale nel giuramento, nella parola sacra che univa i componenti di una corporazione. All’interno di ciascuna di esse venivano tramandati i segreti dell’arte e il suo precipuo simbolismo sacro. Gli affiliati respiravano così naturalmente quel comune vincolo discendente dalla sentita paternità divina. «Apprendere l’arte dalla diretta Tradizione del Maestro e comprenderla nel suo aspetto indicibile, vale a dire quale Verbo ineffabile, significa dunque fare esperienza del Verbo che crea e che redime, significa accedere alla vera sapienza», sottolinea mirabilmente Mordini. Le corporazioni erano quindi, come del resto già nell’antichità prima dell’Incarnazione di Cristo, vere scuole di gnosi.

Per l’allievo stare alla scuola del maestro significava imitarne i gesti, le mosse cadenzate da uno specifico ritmo – l’arte essendo, infatti, ritmo che si fa rito – stare alla sua presenza e coglierne la profonda psiche e gli stati d’animo che si traducevano in opera. I trattati possono elencare metodi e tecniche, ma non possono rivelare ciò che è indicibile perché legge di vita interiore che si comunica solo nel legame sottile che unisce il maestro al suo allievo. Questi poneva la sua intera vita sotto la guida del maestro. Imitandolo nell’amore e nell’impegno si faceva a sua volta creatore, liberando il lavoro dalla schiavitù del bisogno. L’arte infatti è essenzialmente imitazione di Dio.

Se dotato di animo plastico e di sincera volontà, l’Apprendista accedeva al grado di Compagno e infine, generando il capolavoro diveniva lui stesso Maestro. In questo lavoro, che era disciplina applicata non solo alla materia esterna, ma anche a quella più preziosa e interna della propria anima, l’artigiano costruiva la sua personalità portandola alla piena e ordinata realizzazione. Il mestiere si faceva arte, la tecnica diveniva virtù.

A fondamento di questo percorso vi era però il riconoscere le specifiche idoneità e vocazioni, in primis tra i familiari, i congiunti e i soggetti affini. Qualsiasi civiltà tradizionale si impostava su tale principio. L’arte è estensione dell’anima dell’artista e ogni anima ha la sua traiettoria.

Col Rinascimento però l’artista inizia a distinguersi dall’artigiano. L’io prende il sopravvento, la manualistica dilaga e il vitale rapporto maestro-apprendista, si affievolisce. Il razionalismo moderno allarga la lacerazione che diviene infine mortale attraverso l’arma della società tecnologica.  Il lavoro non è più redento dall’arte, opera gioiosa dell’uomo che crea, ma solo aspetto economico, atto meccanico sia nella sua dimensione manuale che in quella “intellettuale”. All’intimo riconoscimento delle specifiche personalità oggi si sostituisce l’anonimo affidarsi agli schemi dell’atomismo liberale. Si acquisiscono titoli su titoli, in “fantomatiche scienze del nulla” che diventano il nostro abito sociale e il nostro lasciapassare lavorativo, mentre la separazione dalla nostra vera personalità diviene incolmabile. Il moderno industrialismo non ha nessun contenuto tradizionale, non veicolando la trasmissione simbolica di verità rivelate. Non c’è nessuna sapienza, quanto invece meccanica e alienante insipienza. Nell’arte tradizionale l’uomo sperimentava un contatto amoroso con la realtà e con le creature. Un contatto di chi era stato guidato alla realizzazione della propria piena personalità. Ed è proprio di chi realizza la propria personalità, il vivere l’intimità, perché ha raggiunta l’intimità più importante, quella con se stesso, e di qui col divino.

Se i Maestri d’arte sembrano ahimè solo un ricordo, rimangono ancora – seppur rarissimi! – i maestri dell’anima, o più propriamente, i Padri spirituali, e certamente la crisi di entrambe le figure non è casuale. Recisa la pianta del mondo corporeo e quindi del genuino lavorare (homo faber), svilita e mortificata l’azione nobile (homo imperans), ecco reso quasi sterile il sublime volo dell’intelletto orante (homo contemplans).

Se l’avere un maestro nel cammino dell’arte abbiamo visto essere cosa necessaria, tanto più lo è nel cammino dell’anima. «Il Signore vuole che un uomo si salvi mediante un altro» insegna il monaco Carpazio nella Filocalia. Anche in questo caso, il Padre spirituale deve saper riconoscere le specificità di ogni discepolo e far emergere la sua irripetibile vocazione, ma all’impegno del Padre deve corrispondere una dedizione che il discepolo ha da mantenere nei suoi confronti per tutta la vita. Il discepolo deve rimettersi completamente nelle mani del maestro, e questi lo deve plasmare come l’artista plasma la materia per il suo scopo.

Il dono più grande che un Padre spirituale deve possedere è il divino discernimento e la chiaroveggenza. Per questo, la ricerca di un maestro adeguato può essere molto lunga e faticosa, specialmente oggi che fra i pochi che si attribuiscono tale nome, si confondono falsi maestri. Bisogna pregare intensamente che ci venga inviato il maestro di cui abbiamo bisogno, e tra i molti illuminati bisogna scegliere il perfetto, colui che mostri di saper arricchire molti. Egli sa vedere nell’anima del discepolo ben al di là della comune percezione e sa vedere le cose secondo natura, sa vedere la realtà in trasparenza. È colui che insegna, cioè “pone segni sulla via” che il discepolo deve percorrere, ma questi ha da farsi cieco, per essere guidato su vie che non conosce. Vivere al livello della propria personalità profonda è il traguardo a cui il maestro deve condurre il discepolo, lì dove tutto si fa prossimo ed intimo, lì dove solo si è veramente capaci di amare. La perfetta visione è libertà e la libertà è piena libertà di amare.

L’ossatura di qualsiasi civiltà che meriti tal nome non può fare a meno di veri maestri, secondo i canoni tradizionali, naturalmente. Prima depauperate e infine scalzate queste figure, abbiamo condotto la società ad essere un formicaio di ciechi incapaci di amare e di creare. Se l’altro è in verità un mistero perché come uno specchio svela una porzione del mistero celato in me, oggi invece l’altro è ridotto ad un ostacolo o tutt’al più ad un compagno di sfuggenti avventure. La relazione nasce dall’intimità e l’intimità dalla veggenza e quest’ultima dall’aver superato ogni paura e ogni attaccamento. Si può essere intimi solo dove non abita più il possesso. A noi invece oggi, resta soltanto la miseria della solitudine.

 

Torna in alto