Napoli ce l’ha l’unico Banksy italiano su un muro scrostato di Piazza Gerolomini, arte povera, ricca invece quella della 1^ mostra sul writer apertasi a Milano il 21 novembre al Mudec (acronimo di Museo delle culture) all’ ex Ansaldo.
Incredibile un Banksy al chiuso, in gabbia, lui che viene da autobus e strade taggati di Bristol, famosa per i suoi cartoncini, città di graffitari e postgraffitari, guerriglieri notturni armati di bombolette o stencil con spugne. Tra i primi ed i secondi fu guerra per bande, i puri spontaneisti del gesto ribelle contro gli street artists ma non entreremo nel bizantinismo degli ortodossi del Tag, per certi versi iconoclasti ed i creativi satirici di un’arte di strada.
Chi è Banksy? Molte le ipotesi costruite ad hoc per calare la nebbia su questo Robin Hood nella foresta di Sherwood dell’urbanesimo alienante. Un anonimato lontano anni luce dall’umiltà imposta, nel Medioevo, agli artisti, lui colpisce, firma l’opera per autenticarne la vendita, poi si fa usignolo della protesta dem chiuso nel cappotto d’oro cucitogli addosso. Un business colossale su un N.N. del quale s’ignora o si finge, per quotazioni, di ignorare tutto, ammantando di un alone mistico l’agit- prop del sarcasmo sulla società occidentale, da secoli carta assorbente degli spiriti ribelli anche in arte. I nostri futuristi si scagliarono violenti contro le muffe dei musei, il passatismo del cheto viver borghese, le contraddizioni del sistema, niente di nuovo dunque sul fronte dell’artista divergente. Niente di che neppure dal punto squisitamente tecnico, le immagini di Banksy sono accademiche, prese da foto selezionate poi trasferite su stencil e tamponate con vernice, ciò che le rende uniche è il capovolgimento ironico del significato, il messaggio knock down contro il marcio capitalismo dello zio Sam & family.
Cantava il vecchio Guccini: “Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni […]”, era l’Avvelenata del ’76 (Banksy aveva forse solo due anni) tanto più che il successo arride ai moderni Trockij proprio con le tecnologie mediatiche del capitalismo senza le quali il grido resterebbe in bottiglia e soprattutto i c.c. sarebbero vuoti. Essere o apparire, dilemma già risolto dal postmodernismo della chirurgia plastica, allora ben venga il cavalcare l’anonimato che fa gossip, stuzzica la curiosità, rovista alla ricerca di un nome tenuto nascosto, ben venga il trita carte che fa a strisce in un baleno La ragazza col palloncino all’asta di Sotheby’s suscitando l’Ohhhh! mondiale, ben venga ancora il presunto diniego dello street art inglese alla mostra milanese appena inaugurata.
Il cuore del sistema Banksy non sono tanto i temi sociali, il pacifismo ecologista, il No war, la sofferenza dei palestinesi, i muri israeliani o i vizi atroci del consumismo, oramai luoghi comuni salottieri, la pompa è Banksy stesso con le quotazioni delle opere che schizzano in alto sul mercato. Il serpente morde la sua coda stringendo nel cerchio l’orto del superfluo, anzi per dirla alla Nicolini dell’effimero, il significante è facile da capire, il significato produce estraniazione per un nano di riflessione, niente di metafisico, è alla portata di tutti.
Il 6 ottobre di quest’anno a Modica s’è spento Piero Guccione, le sue marine sono l’ut pictura poesis, fu artista “impegnato” sulla rive gauche ma questo ad un pensiero forte non importa, fu soprattutto un grande poeta del colore conosciuto nella nicchia degli addetti perché alle masse s’ addice il mito mordi e fuggi di Banksy.
In ultimo leggiamo che quella milanese è la prima mostra al chiuso dedicata al writer anglosassone, veramente nel 2016 a Roma, in quel di Palazzo Cipolla, lo avevamo già incontrato in “War Capitalism & Librty” era lui o era un altro dei suoi scherzi?