Bauhaus è 100

 

Bauhaus è 100

Nell’Aprile 2019 cade il Geburstag (genetliaco) della Staatliches Bauhaus (Scuola statale del costruire), spegne cento candeline dal suo primo vagito a Weimar, generata da un progetto didattico sperimentale dell’arch. prof. Walter Gropius, propugnava la fusione tra l’Istituto superiore di belle arti e la Scuola d’arte applicata del Granducato di Sassonia. Obiettivo guida: la Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, riallacciandosi alla teoria già di Richard Wagner che desumeva tale concetto dal teatro greco ove tutte le arti, senza distinzione gerarchica, collaboravano unite alla realizzazione dello spettacolo.

C’erano poi altri semi sparsi in Europa quali il tentativo anglosassone di W. Morris e J. Ruskin volto al recupero della competenza artigianale con gli Arts and Crafts (Arti e Mestieri) o la recente esperienza olandese De Stjil di Theo van Doesburg del 1917. La Bau-Haus (Casa del Costruire) si prefiggeva la rinascita delle conoscenze/abilità empiriche supportate dalla new tecnology, amalgamando Belle Arti, saper fare e  tèchne (macchine & sistemi di produzione moderni), stando sul binario della seconda rivoluzione industriale e rottamando i vecchi stili col loro’ inutile ornamento (“un delitto” lo definì A. Loos) il tutto all’indomani della Grande Guerra.

Nei suoi 14 anni di vita la Scuola fu nomade, cambiò regione, città, sede, dalla Turingia di Weimar alla Sassonia-Anhalt di Dessau fino al Brandeburgo di Berlino, mutando direttori (Gropius. Meyer, M. van der Rohe), oltre all’offerta formativa con relativi indirizzi. La Bauhaus fu senza alcun dubbio il top influencer  dell’architettura moderna, soprattutto del design, nel secolo scorso fino all’attuale, propugnando la subalternità della forma alla funzione, anzi questa, se risolta secondo principi d’ ergonomia, efficienza, economicità, serialità è in se stessa “il bello” purificato d’ogni orpello. “Less is more” (meno è di più) fu il motto coniato dall’ultimo suo direttore, L. Mies van der Rohe, un’essenzialità manichea applicata fin nei minimi particolari sia alle costruzioni (famosa la Haus am Horn del ’23 o la sede di Dessau firmata da Gropius) che all’arredo (la sedia Wassily) e all’oggettistica delle cosiddette arti minori. Nei primi anni, a dire il vero, nei laboratori, s’ insegnava il recupero di antiche, dimenticate conoscenze ed abilità, spaziando dai metalli, alla ceramica, ai tessuti, alla fotografia, ecc. solo in seguito furono introdotti i corsi su architettura e design, mentre il metodo didattico restava il problem solving con il confronto aperto docenti-allievi sulle tematiche proposte.

Fu perciò una scuola democratica, collegiale, con un forte odore di socialismo, costretta, per questo, a migrazioni fino alla sua chiusura nel 1933 con decreto di Hermann Göring perché ritenuta un covo di bolscevichi. Con la diaspora che ne seguì alcuni studenti ebrei si rifugiarono in Palestina continuando il processo di modernizzazione dell’architettura, dando forma alla Città bianca di Tel Aviv (40.000 edifici) divenuta patrimonio dell’UNESCO.

A noi però interessa qui gettare un ponte tra questa ricorrenza tedesca e il nostro MIAR (Movimento Italiano di Architettura Razionalista) degli anni ’20, quel “Gruppo 7” ambrosiano di giovani architetti ribelli agli stilemi dell’Accademia, votati a rivoluzionare l’architettura incrostata dell’Italia post umbertina, una lingua morta.  Furono sani fermenti e contaminazioni col Movimento Moderno europeo (dal Deutscher Werkbund alla Bauhaus, al funzionalismo di Le Corbusier fino al Costruttivismo) riuscendo ad andare ben oltre le teorie dell’International style per capacità di fondere la nostra tradizione, unica al mondo, con istanze e tecniche del presente, rielaborano l’inattuale con l’attuale, fu un laboratorio alchemico di sintesi altissima per qualità progettuale dello spazio. Tre esempi ci sembrano appropriati per rimarcare questo assunto: l’Asilo Sant’Elia a Como di Giuseppe Terragni (avremmo potuto senza remore citare anche la bellissima Casa del Fascio comasca), il Palazzo delle Poste all’Aventino di Adalberto Libera, la Casa elettrica del duo Luigi Figini e Gino Pollini, uno dei più alti prodotti di design, realizzata per la IV Esposizione Internazionale delle arti decorative ed industriali tenutasi a Monza nel 1930, poi sciaguratamente demolita a distanza di pochi mesi. Sono opere degli anni ’30 quando purtroppo il MIAR aveva già chiuso i battenti dopo la mostra del ’31. La rivoluzione, anche in architettura, aveva segnato il passo, s’ era tradita, tornavano i tromboni d’Accademia con tanto di esultanza di M. Piacentini, sovrano della monumentalità retorica. Eppure c’era davvero così densa sostanza in quell’architettura razionalista italiana che anche lui vi attinse a piene mani resuscitando però il caro estinto, l’ornato.

Ps. Fra i tanti coriandoli di ricorrenze permettetemi ora di ricordarne una, sono 200 anni che il “ranocchio” Giacomo Leopardi vergò l’idillio L’Infinito: “Sempre caro mi fu quest’’ermo colle, /E questa siepe, che da tanta parte/Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./[…]” Ma questa è un’altra candelina sulla quale forse soffieremo dopo.

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