Canale Kabul


 

Canale Kabul

C’è un canale prima dell’ingresso all’aeroporto Internazionale Hamid Karzai di Kabul, separa la strada dallo scalo, all’Abbey Gate stanziavano i soldati a spulciare documenti ai contractors (mercenari privati ben pagati nei conflitti internazionali) e agli interpreti filtrati tra una fiumana di profughi ammassati in cerca di un volo d’acciaio verso una nuova patria. Il “martire” (sic!) Abdul Rehman Al-Loghri militante dell’Isis-K (sedicente Stato islamico nella provincia del Khorasan), superate le barriere di sicurezza, a pochi metri dal check point, s’ è fatto saltare in aria, a brandelli, una foto sui media, sventagliate di mitra di compagni sulla folla, un biblico rosso sangue ora tingeva l’acqua di quel canale.

La fresca vittoria degli studenti delle scuole coraniche (i talebani) è esplosa con lui, un terrorista suicida, a seguire altri tre attentati, ben oltre duecento morti sulla bilancia tra cui 13 marine statunitensi, a centinaia si contano i feriti, lacrime da coccodrillo bagnano la Casa Bianca, il fuggi, fuggi dei “missionari” ISAF è stato un collasso non solo americano, si sa però che la madre delle sconfitte è nubile, senza pretendenti.

All’indomani dell’entrata trionfale nella capitale afgana il Mullah Baradar Akhund, numero due dei combattenti fondamentalisti, dichiarava:“La guerra in Afghanistan è conclusa. Abbiamo raggiunto ciò che volevamo ottenere ovvero la libertà del Paese e l’indipendenza del popolo afghano” ma gli attentati del 26 agosto aprono allo scenario di un’ ennesima guerra civile, il governo delle tribù è sul fuoco del fornello alchemico, deve già fare i conti col soffio violento dell’Isis, i resti di Al-Qaida (ex alleato) ma soprattutto con l’araba fenice dei Mujaheddin guidati da Ahmad Massoud figlio del mitico leone del Panjshir: “la resistenza continuerà e avrà successo”, è il programma-obiettivo, l’arruolamento di guerriglieri è in atto, l’orgoglio del Panshir si chiama: Resistenza!

Sull’Afghanistan “tomba degli imperi” la fiamma arde perenne, le vestali portano a tracollo fucili d’assalto, vestono la Shalwar kamiz, sul capo portano il pakol o il turbante, sono indomabili guerrieri tra quelle rocce scagliate giù da Allah su una terra assai aspra ma nodale sulla via della seta, appetita da molti nella storia, oggi dal drago cinese fornitore di appoggio e armi ai talebani, già suona il campanello alla porta del Paese per riscuotere il capitale più interessi.

Nel particolare l’estrazione delle terre rare indispensabili per la green economy, metalli vitali per fotovoltaico, pale eoliche, smartphone, touchscreen, lampade a basso consumo, batterie per auto elettriche, hard disk, fibre ottiche, ecc. E la Cina, guarda un po’, rifornisce lo schizzinoso Occidente ecologista di tutto questo per una percentuale superiore al 90% di ordini, sfruttando sì il proprio ricco sottosuolo ma gettando l’occhio d’aquila su quello dei vicini, rendendosi responsabile dell’alto inquinamento prodotto da loro estrazione e lavorazione. In più sotto quelle pietraie afgane dormono oro, petrolio, uranio, bauxite, carbone, ferro, gas naturale, cromo, piombo, zinco, pietre preziose, ecc. Se ne stanno là sotto un mucchio di macerie dopo trent’anni di guerra, mancano però tutte le infrastrutture indispensabili allo sfruttamento dei giacimenti mentre sui campi ondeggiano i papaveri dell’oppio di cui l’Afghanistan è il maggior produttore al mondo assorbendo l’80% del mercato, e-ro-i-na, siringa da sballo per l’eco-Occidente.

Ricostruire, modernizzare il Paese è questo il vero business seguito da mille concessioni all’impero rosso del serafico Xi Jinping, non ha sparato un colpo, troppo intento com’era a scrivere il suo librone bianco in due volumi, un vangelo, raccolta di pensieri e discorsi del leader PCC che democraticamente gli studenti dovranno leggere, studiare, ripetere a memoria.

Le uova d’oro ci sono eccome nel paniere afgano, le mani s’allungano da Oriente a Occidente, ma la guerra euro-americana è persa, fallimento epocale, perciò ombre rapaci s’ allungano fameliche da Pechino alla Turchia, dal Cremlino alle monarchie saudite, sarà guerra ancora ma senza stabilità politico-militare l’Afghanistan sarà un bolo assai amaro da inghiottire per gli imperialismi golosi, ne san qualcosa Alessandro Magno e l’Armata rossa, Gengis Khan e gli yankee spaesati, scorrerà sangue fino all’ennesima liberazione dalle marionette mosse dai cinesi e dagli sponsor del Daesh, i mujaheddin sono fedeli ai motti: “non cedere mai”, “marcia e muori”, molti canali si tingeranno ancora di rosso sangue, è la piaga afgana.

L’eutanasia dell’Occidente chiuso nel cavallo di Troia della democrazia export, del suo global thinking, non abbisogna di referendum, tramonta contro una fede cocciuta, sprezzata con l’epiteto di Medioevo.

Noi qui da ribelli irriverenti ci teniamo stretto il volto di Khasha Zwan, il comico afgano, che sbeffeggiava i propri rapitori talebani prendendosi burla di loro, schiaffeggiato, poi morto sgozzato, è un eroe della resistenza e quello sberleffo irridente il potere è più d’ una goccia di speranza.    

 

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