Chiudiamo le scuole?

 

Chiudiamo le scuole?

Il Papini futurista, esplosivo direttore della mitica testata Lacerba, il 1 giugno del ’14 pubblicava un suo scritto: “Chiudiamo le scuole!”  Invito i lettori a leggerlo non tanto per l’anatema surreale e suggestivo contro queste “bianche galere” del sapere ma per capirne le ragioni della scomunica, alcune, purtroppo, ancora attuali, altre non vere.

 Tornando in treno dal convegno del pensieroforte, una rosa del e nel deserto, una matura fanciulla al cellulare chiede alla grassoccia mamma: ”la Spagna è una Nazione o una regione? Fa presto! Devo rispondere al gioco”.  Un caso? Spero, di certo frutto della sua anemica frequentazione delle sudate carte. Così non fosse la riforma autentica della scuola sarebbe applicare da subito l’invito di Papini.

Nell’assegnare i Ministeri, come si fa col servire le carte da gioco, si segue il dipinto di Caravaggio I bari, si guardano i re in mano all’alleato-avversario, si fa segno al compare cosa gettare sul tavolo per farne presa lasciando, a chi ci casca, una scartina, il Ministero della P.I. con un anagramma adesso assai più barocco MIUR. Se la scuola non interessa i politicanti, è un parcheggio a pagamento per famiglie indaffarate, un assegno di inclusione di laureati a caccia d’ un salario, un estintore per soffocare tensioni sociali, una naja per allevare burocrati cretini da assorbire nella macchina dello Stato, chiudiamo le scuole e liberiamo le api da quest’arnia vecchia. Un’utopia, sic stantibus rebus del sistema postindustriale, ma forse una gaia utopia. Pensar forte è far saltare il banco dei bari, quello  delle tre “i” dell’ Arcore’s style, inglese, impresa (quella degli altri), informatica, una ghigliottina del sapere umanistico, non risparmiava neppure la ”i” di Italiano, sostituendola con la lingua di pirati, finanzieri e internauti. Il liberismo vuole una scuola d’ asinelli, provetti solo nel digitare; se sei veloce t’informi su internet che cavolo sia la Spagna, non serve saper di Geografia.

 Tutte le riforme hanno in sé lo stesso virus, adeguare la scuola al passo coi tempi, scalpellare via quanto ritenuto superfluo, in un’unica direzione, quella orizzontale, col verso puntato solo alla téchne, saper fare. Il fine è chiaro, avere ciuchi su Dante ma cavalli per le dieci multinazionali più pericolose del mondo e la nidiata genetica che hanno partorito, dove l’uomo, in fondo, è un’unità con troppe variabili nonostante il rigoroso allevamento, si prepari a essere espulso dalla navicella, senza paracadute, troppo spesso è in officina, invecchia, non sta al passo con le tre “e”, efficienza, efficacia, economicità.

 La cultura sembra seguire la Riforma della fede, conoscere Seneca è affar tuo, te la vedi con te stesso, a noi non c’interessa, basta che vendi tanto e fai profitto, non quello scolastico s’intende. Il pessimismo però è anche l’arma spuntata dei vigliacchetti, lo schermo degli spettatori che vedono un film scritto diretto e interpretato da altri, lasciando che la pellicola scorra fino alla parola The End (omaggio ad una “i”) ma nel frattempo lor signori/e sono morti, le maschere li porteranno fuori dalla sala sostituendoli con altri/e in quegli stessi posti.

 Troppi voluti, indirizzati luoghi comuni sulla scuola, li conosciamo a memoria fino a dire con ragione, scusate l’espressione, “che palle!”; le vacanze dei docenti, le loro 18 ore, l’abisso scuola-lavoro, l’inutilità del sapere ai tempi d’oggi: “ma a che serve?”, ec. A chi scrive non piacciono i reality, fors’anche perché non ho più molta memoria, ma la scuola italiana meriterebbe qualche puntata per essere capita, perché no apprezzata, secondo l’OCSE è la migliore d’Europa, forse perché resiliente al pensiero unico.   

 A un docente d’ Italiano e Latino, alla vigilia della consueta autogestione didattica, alcuni studenti richiesero la sua disponibilità a tenere qualche libera lezione, scegliendo un tema che li acchiappa, rispose severo: ”Certamente, è un’occasione per studiare più Latino e fare traduzioni.”. Una chicca della memoria a dire che ogni mattina ci sono dei Don Chisciotte derisi, con una mise un po’ dimessa, che trasmettono da una radio di legno pregiato, d’ antiquariato, l’immensa tradizione della nostra cultura, combattendo contro i mulini accesi dei cellulari che dicono agli allievi, a certi allievi, “Non l’ ascoltare”. Però il somarello Pinocchio, burattino di pino a caccia della città Acchiappa-citrulli, per diventare uomo capì di doversi spogliare dell’individualismo per confrontarsi con gli altri, studiando quella tradizione che passa dai banchi di scuola, in primis come senso del dovere con l’inevitabile fatica. Eh no, caro, vecchio Papini, non le chiuderemo le scuole pubbliche (le altre subito), ne vorremo fare luoghi privilegiati, giardini della cultura, del dialogo eccitante tra generazioni, perché agli ignoranti è dato di consegnarsi schiavi persuasi che la loro dimensione sia l’unica fattibile. D’altra parte non ne conoscono altra, questo vale per studenti, docenti e quelle tante famiglie che invocano diritti, promozione senza il sudar sangue dei loro Gracchi. Abbiamo ascoltato, nel convegno, giovani del nuovo millennio esporre tesi rigorose, articolate, con estrema competenza linguistica e di contenuti e io non suono il violino. L’istruzione ha seminato sulla buona terra e allora chi se ne frega se A. Einstein andava male a scuola.

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