Ai vincitori il merito; ai vinti il demerito. Analizzare la complessità degli eventi, il suo essere, diviene opera incerta quando, solerte, si confonde il giudizio morale con la critica da entomologo (penso ad Ernst Juenger), la freddezza dell’analisi.
Da liceale ancora il 4 novembre si celebrava congiunte la Vittoria del 1918 e le Forze Armate. Per l’occasione si potevano visitare le caserme ed aperti i musei delle singole Armi. Si vivevano alcune ore ricche di curiosità e di una emozione ridente e commossa. Ne porto memoria con mio padre con coetanei. Poi abolita la festa – economia misera e ambigua – e, infine, riproposta con la sfilata del 2 giugno dove il grido “Folgore!” e l’Inno della Brigata Sassari (la più decorata con i suoi cippi ormai in abbandono fra i sentieri cespugli pietraie del Monte San Michele) vengono relegati dalla presenza di sindaci civili di varia tipologia mezzi urbani. Viva l’Italia di tutti e di nessuno.
In questo nostro Paese il Bollettino del generale Armando Diaz, Armistizio di Villa Giusti, 3 novembre 1918, sbiadisce in targhe di bronzo annerito e scalfito, rimane in triste e sperduto abbandono. “… I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Viceversa la ritirata di Caporetto, disfatta per molti, riempie le pagine di giornali di libri di storia di cronache con grida e pianti disperati in ricordo di soldati in fuga o messi al muro da improvvisati plotoni d’esecuzione, considerata al pari della rivoluzione d’ottobre e dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. E, lesti, si fa propria la considerazione, eretta a simbolo di pacifismo, di Bertold Brecht “Sfortunati quei popoli che hanno bisogno di eroi”. Rari coloro che, nonostante tutto, ne danno il senso di quella comprensione rinascita orgoglio in difesa della Patria in pericolo. E basterebbe rileggere alcuni passaggi di Ernst Hemingway, l’autore di Addio alle armi. Se provassimo a ripensarla quale inizio della Vittoria?
Contraddizioni. Mi torna in mente uno dei tanti apparenti paradossi, fantasiosi nel linguaggio e sottilmente perfidi nel contenuto, di Winston Churchill e da cui a volte conviene attingere: “Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. Così valga per noi che, d’istinto, ci siamo lasciati coinvolgere – e ne andiamo fieri – da “il male assoluto” e che s’è radicato in noi il convincimento che non fu affatto “la parte sbagliata”…
Assistendo alla resa dell’Europa, travolta da venti estranei e maligni (ebbe a scrivere qualcosa di simile Drieu la Rochelle, visionario aristocratico), a quale plotone catene sbarre e chiavistelli ci dovremmo sentire serrati? Non domi non vinti. Le strade della “nostra” storia non si disperdono nei corridoi vuoti di Bruxelles o fra Montecitorio e le muffe di Palazzo Madama. Oltre la linea “goal!”…