La scuola è ormai ridotta a luogo di sofferenza per tutti: docenti e discenti. E da questo luogo occorre tutti uscire al più presto. Pazienza, poi, che una volta usciti dalla scuola gli studenti, privi sempre più spesso della preparazione necessaria e della giusta motivazione ad affrontare la vita, non superano i test d’accesso universitari o non esprimono la giusta determinazione per affrontare le sfide dell’esistenza. Per il buonista scolastico questi non sono problemi che lo riguardino: ha varato la nave priva di solido scafo e di strumenti di bordo, ma non avverte la responsabilità del suo inevitabile affondamento. Purtroppo per il buonismo, la vita non è buonista e anzi si avvia ad alzare il livello di competizione che diventa globale. Il buonismo, non chiamato a correo dei fallimenti successivi, continua, chiuso nella sua autoreferenzialità, a produrre danni e a sviluppare processi di schizofrenia degni di un manuale di psichiatria. Si è detto, infatti, che sempre più spesso un generico impegno e un’astratta buona volontà fanno aggio sull’effettiva finalità del momento istruttivo-educativo. Tuttavia, il buonismo figlio del puerocentrismo massimalista dei nostri giorni, riesce a trovare attenuanti e giustificanti anche nei suoi opposti. Se il discente non si impegna e non dimostra buona volontà evidentemente è a causa dei problemi famigliari, di socializzazione: va quindi compreso e aiutato. Il che sarebbe certo giusto, se l’aiuto provenisse dalle strutture medico-sociali predisposte, alle quali certo la scuola può dare il suo contributo, ma senza pretendere indebite sostituzioni o sovrapposizioni. Anche perché l’aiuto e il sostegno della scuola molto spesso si limitano ad ammettere l’alunno alla classe successiva, il che non solo non è di alcun giovamento per eventuali problemi psicologici, ma anzi pone le basi per problemi futuri, quando i giovani si troveranno gettati nell’età adulta senza i necessari supporti. Il livello più alto – o più basso – del puerocentrismo viene toccato quando esso si riconnette alle sue origini, al senso di colpa dal quale è stato generato.
Allora – ed è un caso classico – la scarsa motivazione allo studio e i risultati scadenti non sono menomamente attribuiti a una scelta errata del corso di studio, al non aver adeguatamente auto valutato le proprie potenzialità, all’evidente declino dell’intelligenza individuale e collettiva dei nostri tempi. Il responsabile unico del fallimento viene individuato nel responsabile stesso del processo educativo. Come nella migliore tradizione delle purghe staliniane, l’imputato si riconosce spontaneamente colpevole di non aver saputo interessare, motivare e preparare adeguatamente chi gli era stato affidato dalla società. Il che potrebbe anche essere una valutazione nobile e coraggiosa se portasse alle dimissioni del reo, con conseguente ricerca di una diversa professione. Invece tutto si risolve nella falsamente catartica autoassoluzione consistente nella promozione alla classe successiva.